martedì 5 luglio 2011

Le Suore di Mukothima

Sono le nove di sera. Il sole era già tramontato da un paio d’ore, un fatto usuale in quest’angolo d’Africa, così prossimo all’Equatore da poter intravedere ancora la coda dell’Orsa Maggiore danzare sul filo dell’orizzonte. L’assenza di luci del villaggio e della boscaglia circostante rende le stelle particolarmente lucenti e la fredda brezza serale sferza il mio volto, mentre torno verso l’ospedale dove mi aspettano Sr Mercy e Sr Makena.
Mi avevan telefonato un’ora fa dicendomi che una delle mamme non riusciva a partorire e sanguinava abbondantemente. Appena arrivo nei pressi dell’out-patient, sento il rumore della Defender ormai in folle. Mi avvio verso la macchina e con la barella aiuto a scaricare una donna esausta, mezza collassata e coperta di polvere. Le suore sono tirate, stanche, ma sorridente e decise... e’ bello per me vedele qui a Chaaria di notte. Vuuol dire molto per me e mi fa capire che i pesi di gestione della loro “MATERNITY” li portiamo davvero insieme. Anche le suore sono sporchissime: sul volto e sugli abiti abiti bianchi scorgo con disattenzione una patina di polvere rossastra a cui sono piu’ che avvezzo. “Avete avuto paura a venire di notte?”, chiedo loro. “Certo che un po’ di timore ti viene per quelle strade sconnesse e solitarie... ma poi, quando le cose si devono fare, non bisogna mica andare per il sottile. Abbiamo chiamato l’autista e poi ci siamo affidate alla Provvidenza, pensando soprattutto al bene della mamma e del bambino”.
Ci dirigiamo verso la room 17 dove visito la paziente  e decido il trasferimento in sala operatoria per il cesareo urgente. Questa volta ero preparato e tutto e’ già allestito. Infatti siamo stati in comunicazione con Mukothima sin da stamattina, e sr Mercy era riuscita a comunicarmi per telefono che stava partendo con la macchina.
Scambio due parole con lei, e ci consoliamo a vicenda confidandoci un po’ dei nostri fallimenti: “avrei dovuto venire anche ieri, lo sai Brother... solo che ero proprio da sola e non avevo nessuno da lasciare di guardia in dispensario... E’ arrivata una mamma, e, dopo la visita, abbiamo compreso che non avrebbe potuto partorire.
Come sempre, i parenti ci hanno chiesto la macchina, ma proprio non potevo aiutarli. Ho detto loro di andare al market e di cercare un matatu. Era pieno giorno, e lo avrebbero trovato senz’altro.
Poi ho continuato a visitare i malati che in questi giorni sono aumentati. Verso le 4 del pomeriggio li ho visti tornare a piedi. La mamma sanguinava e camminava con fatica. Altre donne portavano in braccio un bimbo: la donna aveva partorito in auto, ma purtroppo il piccolo era morto. Io pero’ che cosa avrei potuto fare? Non avevo ne’ macchina, ne’ autista ed ero sola in clinica”.
“Come ti capisco Sister, anche a me queste cose sono successe tante volte quando non facevo operazioni a Chaaria!”.
“Poi a volte sapessi che paura che fa la strada di notte”, mi ripete la Suora.
“Quando un’emergenza capita nel cuore della notte, hai la tentazione di aspettare fino all’alba, sperando che poi tutto vada bene; ma lo fai soprattutto perche’ hai timore dei malviventi che spesso organizzano imboscate ai viaggiatori. Ma ora, dopo due o tre casi in cui siamo arrivati a Chaaria troppo tardi, abbiamo deciso di non ripetere più lo sbaglio. Se c’e’ una complicazione, si parte a qualunque ora; punto e basta... il resto lo lasciamo nelle mani di Dio... Lui proteggerà le nostre vite”.
“Sono completamente d’accordo con voi, care Sorelle. Fate cosi’ sempre... Venite a Chaaria tutte le volte che siete in difficolta’, a qualunque ora del giorno o della notte. Noi siamo qui anche per voi, e a me fa piacere pensare che in qualche modo lavoro anche per Mukothima. Ora andate, prima che sia troppo tardi... Io vado a cambiarmi per il cesareo. Poi vi diro’ se e’ maschio o femmina”.

Fr Beppe



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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