venerdì 5 agosto 2011

Africa (riflessioni post-chaari dal viaggio di nozze)

Succede che uno sbagli aereo e al posto di tornarsene a casa col solito volo, finisca in Sud Africa.
Vien subito da pensare: "beh, poco male, in fondo siamo sempre in Africa".
Poi uno scende dall'aereo e subito si accorge c'è qualcosa che non va. Un freddo tremendo. "Per forza! Siamo scesi di parecchi gradi verso sud, è normale che faccia più freddo nella stagione invernale locale".
Poi uno sale su un pullman e subito si accorge che le strade sono bellissime. Non una buca, non un dissestamento, le indicazioni stradali perfette ed illuminate. "Per forza! Ci sono appena stati i campionati del Mondo di calcio lo scorso anno, ovviamente è ancora tutto a posto!".
Poi uno fa un tour della città e passa a accanto ad uno slum della periferia. E al posto delle baracche di legno e cartone, trova casette in muratura con qualche parabola qua e là che sbuca dal tetto.
Poi uno esce verso la campagna verde e trova ettari di bananeti perfettamente organizzati e puliti. E poi vigneti, agrumi, pere, mele, cereali... tutto perfetto.
E poi un particolare che non salta subito all'occhio.
La gente per strada. Non ce n'è. Quel brulicare di persone che si spostano sui bordi delle strade a cui uno è abituato, dov'è?
"è in macchina! Ce ne sono tantissime! Ehi! Ma qui mi sa che ho veramente sbagliato aereo e ne ho preso uno della SwissAir!"

Allora mi viene in mente una frase che ho trovato su un libro letto proprio a Chaaria che più o meno dice così:
"L'Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. E' un oceano, un pianeta a sè stante, un cosmo vario e ricchissimo. È solo per pura comodità e per semplificare che la chiamiamo Africa. 
A parte la sua denominazione geografica l'Africa non esiste." Ryszard Kapuscinski

Alex the dentist




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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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