mercoledì 3 agosto 2011

Il volto della fame

Sto camminando spedito verso l’ospedale. La strada è terribilmente polverosa ed il sole torrido. Non c’è un filo di vento  ed il cielo è di un blu incantevole. Gli occhi bruciano tutte le volte che uno spericolato matatu sfreccia e mi sorpassa, lasciandomi immerso in una nuvola di polvere rossa. Ad un certo punto odo una voce femminile alle mie spalle:
“Padre, fermati per piacere”.
Istintivamente penso che quella persona stia chiamando me, seppure io non sia prete… ma chi capisce la differenza da queste parti?
Mi giro di scatto ed inizio ad intravedere tra la polvere argillosa che comincia a depositarsi sul terreno, una figura smilza, accompagnata da un nugolo di bambini. E’ bassa di statura, minuta e dalla carnagione chiara, seppure i caratteri somatici siano chiaramente bantu (brown li chiamano qui, in contrapposizione ai black che hanno una pelle color ebano). In testa ha un foulard tutto sporco; cammina scalza, come pure tutti i suoi bambini. I vestiti sono stracciati e intrisi di una polvere vecchia di settimane. I piccoli sono in condizioni pietose: niente scarpe, abiti così tanto perforati dalle termiti, da sembrare degli scolapasta; sul viso nessun segno di un sorriso; solo occhi stanchi e chiaramente affamati. La loro pancia prominente fa da contrasto a delle gambine magre e scarne. Sulla schiena della donna un altro bimbo piccolissimo dorme saporitamente.
“Hai bisogno di qualcosa? Sei malata? Se vuoi, vieni in ospedale”
“Padre, non siamo malati. Il nostro vero problema è la fame. Siamo venuti da lontano, a piedi, e stiamo cercando da mangiare. A casa non c’è più niente: sono saltate due stagioni delle piogge, ed ora tutte le scorte sono finite. Ci siamo nutriti di mango per un po’; a volte li cucinavamo e spesso li mangiavamo crudi; ma ora la stagione è finita, e non sappiamo più cosa mettere sotto i denti. Mio marito sta cercando lavoro a Meru, ma non ne trova… qualche volta raccoglie legname qua e là; poi lo brucia sotto terra per produrre carbonella e venderla. Fa chilometri e chilometri con un sacco di questo prezioso materiale per giungere al mercato generale, ma poi viene pagato una miseria.
Questo sarebbe il tempo in cui avremmo dovuto raccogliere i frutti di quanto abbiamo seminato durante le piccole piogge di novembre… ma purtroppo non è nato nulla, e temiamo che anche la prossima stagione possa fallire… e poi, che cosa seminiamo anche se pioverà: non abbiamo neppure sementi.”
“Come ti chiami?”
“Kasyoka e vengo da Machakos”.
“Già, l’Ukambani; ci sono stato una volta. E’ molto più povero di Meru, e mi sembra ovvio che tu e tuo marito abbiate cercato di arrivare fin qui per un po’ di cibo. Vieni con me: vediamo cosa posso darti. Quello che vorrei è regalarti anche un po’ di sementi oltre al cibo: speriamo che questa volta piova davvero”.

Fr Beppe

 

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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