Da anni la Medicina
ufficiale dibatte lo spinoso problema della verita’ al malato.
Ai tempi in cui io ero
giovane medico in un reparto di Medicina Interna di Torino, il nostro primario
era totalmente opposto alla verita’, quando si trattava di una diagnosi di
tumore maligno intrattabile. Si parlava con i congiunti, ma poi ci si
arrampicava sui vetri per mantenere un complesso di “pie bugie” che il malato
faceva sempre piu’ fatica a credere, man mano che le sue condizioni generali peggioravano.
Spesso poi ci si contraddiceva e nascevano situazioni molto imbarazzanti.
La ragione di fondo era
la convinzione che la verita’ sarebbe stata una mazzata psicologica verso il paziente,
che sarebbe caduto in depressione ed avrebbe smesso di lottare per la vita,
rendendo l’azione dei chemioterapici ancor meno efficace.
La posizione della
Medicina anglosassone e’ sempre stata molto piu’ diretta: si deve dire la
verita’ al malato, sempre.
Il dibattito tra le due
posizioni contrastanti e’ stato poi in qualche modo influenzato dalla pandemia
HIV. In questo caso, la verita’ al malato e’ diventata una necessita’, sia per
la prevenzione del contagio, sia per convincere il cliente alla fedelta’ nei
confronti di una terapia da assumere per tutta la vita.
Qual e’ la posizione del
Cottolengo Mission Hospital su tale spinoso problema?
In sintesi direi
semplicemente che noi abbiamo scelto la linea di condotta anglosassone, pur
accettando alcune eccezioni alla regola.
Noi preferiamo dire
sempre la verita’ al malato con una malattia che lo portera’ alla morte,
soprattutto quando si tratta di un adulto con responsabilita’ familiari (madre
o padre di famiglia, per esempio). Preferiamo dirglielo direttamente, senza
giri di parole: in questo modo vogliamo essere sicuri che abbia compreso
bene... e poi, a verita’ detta, offriamo tutto il sostegno psicologico ed il
supporto umano di cui lo sventurato puo’ aver bisogno.
In caso di paziente molto
anziano e debole, diciamo la verita’ ai parenti che lo hanno accompagnato, e poi
chiediamo a loro se rivelare o meno la diagnosi al malato.
Naturalmente, nel caso di
minorenni, la verita’ la diciamo ai genitori.
Perche’ abbiamo scelto
questa linea?
Prima di tutto per una
questione di rispetto! Mio papa’ e’ morto di cancro piu’ di 30 anni fa. Lui era
andato a scuola fino alle terza elementare. Dopo l’intervento di laringectomia
che lo aveva reso muto, egli continuava a sentir ripetere il professore,
durante il giro visita con il codazzo di studenti, che si trattava di una
neoplasia. Erano i primi anni che si usava questo termine-maschera.
Il codazzo passava;
discutevano a lungo sul caso clinico; non gli rivolgevano la parola e se ne
andavano. Un giorno mio padre mi ha chiesto un dizionario. Io non sapevo
perche’, ma gliel’ho portato. Cosi’, da solo, ha potuto conoscere la diagnosi.
Ma quello che lo ha
distrutto di piu’ non e’ stata la diagnosi di cancro, quanto il fatto che i
medici lo avevano considerato incapace di comprendere la realta’ di un male che
lo stava divorando. La depressione che ne segui’ duro’ probabilmente fino alla
morte.
Noi crediamo che ogni
persona abbia diritto di sapere quanto ha ancora da vivere, in modo da fare i
propri calcoli, ridimensionare e rifocalizzare i propri piani, e forse anche
mettere a posto qualcosa con Dio.
La seconda ragione per
dire la verita’ al malato, almeno qui in Africa, e’ prettamente economica.
Moltissimi dottori qui non parlano con i pazienti; si limitano a dire: “prendi
queste medicine e starai meglio”. E’ una esperienza comune trovare persone con
forme avanzatissime di cancro, persone che hanno peregrinato da un ospedale
all’altro per anni, a cui purtroppo non e’ mai stato detto nulla.
Dire la verita’,
soprattutto quando la diagnosi e’ infausta, e non ci sono reali speranze
terapeutiche, e’ un atto di carita’ e di buon senso, che potra’ evitare al
paziente tanti “viaggi della speranza” in ospedali sempre diversi, con
l’indomabile certezza che il mancato miglioramento dipenda dal fatto che la
struttura precedente era un cattivo ospedale.
Negando loro la verita’
si dissanguano le finanze di questi poveri pazienti, i quali alla fine comunque
moriranno... ma moriranno squattrinati e senza aver fatto piani per il futuro
di consorte e figli.
Se invece una persona sa
che le rimane un anno o due, e che la medicina non la puo’ aiutare piu’ di
tanto, puo’ pensare di riconvertire le magre risorse economiche per il bene
della sua famiglia, senza spendere tutto inutilmente in ospedali che altro non
faranno se non comportarsi come delle piovre assetate dei suoi soldi.
Certo, la verita’ senza
il sostegno psicologico seguente puo’ essere una mazzata tremenda... ma se poi
sappiamo star vicini ai nostri pazienti, noi pensiamo che sia la via migliore.
Fr Beppe
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