mercoledì 28 settembre 2011

La verità al malato



Da anni la Medicina ufficiale dibatte lo spinoso problema della verita’ al malato.

Ai tempi in cui io ero giovane medico in un reparto di Medicina Interna di Torino, il nostro primario era totalmente opposto alla verita’, quando si trattava di una diagnosi di tumore maligno intrattabile. Si parlava con i congiunti, ma poi ci si arrampicava sui vetri per mantenere un complesso di “pie bugie” che il malato faceva sempre piu’ fatica a credere, man mano che le sue condizioni generali peggioravano. Spesso poi ci si contraddiceva e nascevano situazioni molto imbarazzanti.
La ragione di fondo era la convinzione che la verita’ sarebbe stata una mazzata psicologica verso il paziente, che sarebbe caduto in depressione ed avrebbe smesso di lottare per la vita, rendendo l’azione dei chemioterapici ancor meno efficace.
La posizione della Medicina anglosassone e’ sempre stata molto piu’ diretta: si deve dire la verita’ al malato, sempre.
Il dibattito tra le due posizioni contrastanti e’ stato poi in qualche modo influenzato dalla pandemia HIV. In questo caso, la verita’ al malato e’ diventata una necessita’, sia per la prevenzione del contagio, sia per convincere il cliente alla fedelta’ nei confronti di una terapia da assumere per tutta la vita.


Qual e’ la posizione del Cottolengo Mission Hospital su tale spinoso problema?

In sintesi direi semplicemente che noi abbiamo scelto la linea di condotta anglosassone, pur accettando alcune eccezioni alla regola.
Noi preferiamo dire sempre la verita’ al malato con una malattia che lo portera’ alla morte, soprattutto quando si tratta di un adulto con responsabilita’ familiari (madre o padre di famiglia, per esempio). Preferiamo dirglielo direttamente, senza giri di parole: in questo modo vogliamo essere sicuri che abbia compreso bene... e poi, a verita’ detta, offriamo tutto il sostegno psicologico ed il supporto umano di cui lo sventurato puo’ aver bisogno.
In caso di paziente molto anziano e debole, diciamo la verita’ ai parenti che lo hanno accompagnato, e poi chiediamo a loro se rivelare o meno la diagnosi al malato.
Naturalmente, nel caso di minorenni, la verita’ la diciamo ai genitori.


Perche’ abbiamo scelto questa linea?

Prima di tutto per una questione di rispetto! Mio papa’ e’ morto di cancro piu’ di 30 anni fa. Lui era andato a scuola fino alle terza elementare. Dopo l’intervento di laringectomia che lo aveva reso muto, egli continuava a sentir ripetere il professore, durante il giro visita con il codazzo di studenti, che si trattava di una neoplasia. Erano i primi anni che si usava questo termine-maschera.
Il codazzo passava; discutevano a lungo sul caso clinico; non gli rivolgevano la parola e se ne andavano. Un giorno mio padre mi ha chiesto un dizionario. Io non sapevo perche’, ma gliel’ho portato. Cosi’, da solo, ha potuto conoscere la diagnosi.
Ma quello che lo ha distrutto di piu’ non e’ stata la diagnosi di cancro, quanto il fatto che i medici lo avevano considerato incapace di comprendere la realta’ di un male che lo stava divorando. La depressione che ne segui’ duro’ probabilmente fino alla morte.
Noi crediamo che ogni persona abbia diritto di sapere quanto ha ancora da vivere, in modo da fare i propri calcoli, ridimensionare e rifocalizzare i propri piani, e forse anche mettere a posto qualcosa con Dio.
La seconda ragione per dire la verita’ al malato, almeno qui in Africa, e’ prettamente economica. Moltissimi dottori qui non parlano con i pazienti; si limitano a dire: “prendi queste medicine e starai meglio”. E’ una esperienza comune trovare persone con forme avanzatissime di cancro, persone che hanno peregrinato da un ospedale all’altro per anni, a cui purtroppo non e’ mai stato detto nulla.
Dire la verita’, soprattutto quando la diagnosi e’ infausta, e non ci sono reali speranze terapeutiche, e’ un atto di carita’ e di buon senso, che potra’ evitare al paziente tanti “viaggi della speranza” in ospedali sempre diversi, con l’indomabile certezza che il mancato miglioramento dipenda dal fatto che la struttura precedente era un cattivo ospedale.
Negando loro la verita’ si dissanguano le finanze di questi poveri pazienti, i quali alla fine comunque moriranno... ma moriranno squattrinati e senza aver fatto piani per il futuro di consorte e figli.
Se invece una persona sa che le rimane un anno o due, e che la medicina non la puo’ aiutare piu’ di tanto, puo’ pensare di riconvertire le magre risorse economiche per il bene della sua famiglia, senza spendere tutto inutilmente in ospedali che altro non faranno se non comportarsi come delle piovre assetate dei suoi soldi.
Certo, la verita’ senza il sostegno psicologico seguente puo’ essere una mazzata tremenda... ma se poi sappiamo star vicini ai nostri pazienti, noi pensiamo che sia la via migliore.

Fr Beppe



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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