sabato 8 ottobre 2011

Mukothima...

Andarci per il mobile clinic per me e' sempre una esperienza quasi mistica. E' come andare in Africa davvero... andare in quell'Africa che piu' e' povera, e piu' ti conquista e ti entra nelle viscere, per non lasciarti piu' come eri prima. 
Ci sono andato da solo, in condizioni fisiche precarie, in quanto convalescente da un attacco combinato di malaria e febbre tifoide. Ho guidato adagio su quella strada a tratti cosi' polverosa da avvolgerti in una fitta nebbia rossa, ed a tratti cosi' sassosa da mettere a repentaglio le sospensioni dell'ambulanza. 
Attorno a me la campagna era torrida, avvolta in un solleone feroce, ed a tratti letteralmente infuocata da incendi che i contadini appiccano per sterilizzare la terra dai parassiti prima della semina. 
Ho fatto delle foto alle povere magioni della gente del Tharaka, ma l'ho fatto con un tremendo senso di colpa e con un viscerale rispetto umano; ho posto estrema attenzione che non ci fosse nessuno a guadarmi mentre armeggiavo la mia macchina fotografica: in questi contesti una foto (pur importantissimo mezzo di comunicazione e documentazione) puo' diventare una tremenda mancanza di rispetto. 
Mi immagino quei bambini stracciati o quelle donne scalze con la giara dell'acqua sulla testa domandarmi con occhio inquisitivo: "a cosa ti serve fotografare la mia miseria? Cosa c'e' di attraente nella mia poverta'?" 
Pero' le foto le ho fatte, e ne sono contento: cosi' potete vedere anche voi quale sia l'Africa che mi ha stregato. Non sono i quartieri bene di Nairobi, ma la poverta' del Tharaka. 
Visitare a Mukothima e' in se' un' esperienza spirituale. I pazienti sono certamente piu' semplici di quelli di Chaaria... forse piu' primordiali... ma sicuramente piu' buoni. Nessuno si lamenta che ha aspettato troppo. 
Tutti ti dicono grazie e sono strafelici per il solo fatto che un medico bianco ha detto loro che l'emoglobina va bene, o che la gravidanza procede senza complicazioni. 
 A Mukothima poi sperimenti anche i drammi dell'ignoranza. Le suore mi hanno raccontato due casi agghiaccianti, che sono successi non lontani l'uno dall'altro. 
Si tratta di vicende molto simili nella loro drammaticita': la prima e' quella di una giovane che aveva partorito a Chaaria ed era stata dimessa normalmente. Aveva deciso per il mototaxi per coprire i 42 chilometri di sterrato. Per evitare che il bambino prendesse freddo, lo aveva coperto molto bene, e se lo era stretto al seno prima di prendere posizione sulla motocicletta stipata con altri due passeggeri. Arrivata a Mukothima il prezioso dono di Dio, che aveva portato in grembo per nove mesi, era morto soffocato, vuoi dall'eccesso di lana e vuoi dalla pressione delle troppe persone sedute sulla stessa sella. 
Il dramma si era ripetuto il giorno precedente al mio mobile clinic: un'altra mamma dimessa da Chaaria aveva stavolta scelto lo strapieno matatu del Tharaka per tornare a casa... inspiegabilmente anche lei si e' trovata in grembo un bimbo privo di vita all'arrivo a destinazione: forse soffocato dalla ressa, o forse chissa'! 
Tutte queste cose mi ronzano per la testa e le rimugino al ritorno dalla mia esperienza di servizio in cui ho visitato, fatto ecografie e dato consigli a molta gente. 
Nuovamente guido lento sul pietrame della strada, ed immagino i miei pazienti tornare a casa a piedi, verso le loro capanne, in una terra torrida, arida e ora quasi senz'acqua...
Speriamo solo che la stagione delle piogge non salti nuovamente: altrimenti il Tharaka sara' veramente alla fame piu' brutta! 

Fr Beppe Gaido 





 


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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