giovedì 26 gennaio 2012

Informazioni per infermieri italiani che verranno a Chaaria (Seconda parte)


In questa seconda ed ultima parte desidero parlarvi delle grandi qualita’ degli infermieri kenyoti. Infatti nel precedente articolo, abbiamo sottolineato soprattutto I loro limiti, ma e’ chiaro che moltissimi sono i loro pregi.
Prima di tutto essi sono non solo infermieri ma anche ostetrici: sono bravissimi nella gestione del travaglio e del parto, oltre che della gravidanza con tutte le sue complicazioni. Un infermiere africano e’ preparato nella stima dell’eta’ gestazionale del feto, nella determinazione del battito cardiaco fetale, nel follow up della donna con le doglie, nel parto sia cefalico che podalico, nella pratica della episotomia e della episiorrafia. Seguono la induzione con oxitocina senza problemi.
Essi sono inoltre in grado di diagnosticare e inviare al medico I casi di aborto incomplete, o di sospetta gravidanza extrauterina.
Sono bravissimi pure con il paziente neonatale (anche pretermine) e pediatrico: sono effettivamente incredibili  nel reperimento degli accessi venosi in bimbi a volte di appena un chilo e mezzo di peso corporeo. Anche per la rianimazione del neonate subito dopo il parto, essi sono praticamente indipendenti e non hanno quasi mai bisogno di medico o anestesista.
Essi inoltre sono in grado di fare diagnosi e di praticare molte delle terapie necessarie nella normale gestione del paziente ambulatoriale ed anche ricoverato. Soprattutto sulle patologie tropicali essi sono molto bravi, seguendo i protocolli nazionali: questo li rende molto indipendenti dal medico… cosa utilissima sia di giorno (quando I medici sono pochi), sia soprattutto di notte (quando il dottore e’ sempre e solo il sottoscritto).
Sono anche molto competenti nella gestione delle emergenze mediche: per esempio riescono ad affrontare una crisi asmatica in modo autonomo, e sono in grado di prendersi in carico un malato che ha tentato il suicidio con l’ingestione di pesticidi o veleni di altro tipo: tra l’altro eseguono lavande gastriche con competenza.
Sono in grado di suturare molti tagli e ferite, quando non sono coinvolti tendini od ossa: pure tale aspetto alleggerisce molto il lavoro del medico.
Altro compito che a Chaaria caratterizza l’infermiere kenyota e’ quello del triage: sia in ambulatorio che in reparto questo aspetto e’ totalmente affidato all’infermiere. In ambulatorio i clienti passano sempre dall’infermiere per la prima visita: se egli e’ in grado di gestire la patologia e di prescrivere la terapia, il paziente andra’ direttamente a prerndersi i farmaci prima di andare a casa. Nei casi in cui l’infermiere decide che la patologia e’ al di la’ delle sue competenze, il malato viene riferito alla consulenza del clinical officer o del medico. Anche in reparto l’infermiere fa il giro visita e poi segnala al clinical officer o al medico il malato piu’ difficile o grave. L’infermiere ha inoltre una grande liberta’ nella richiesta di esami di laboratorio. Egli puo’ aprire una cartella clinica ed impostare un protocollo terapeutico in attesa del medico, e puo’ anche scrivere una lettera di dimissione quando il malato e’ stabile. Normalmente egli e’ autonomo nella gestione del degente operato, per cui seguei  protocolli dell’ospedale.
Altro compito che in parte differenzia l’infermiere kenyota da quello italiano e’ il fatto che ad esso e’ affidata la distribuzione dei farmaci in farmacia.
Queste brevi indicazioni possono aiutarci a capire che tra infermieri italiani e kenyoti e’ possibile e doveroso un processo di scambio e di osmosi da cui tutti possono trarre giovamento per il bene dei malati da noi serviti.
Nessuno e’ migliore o superiore. Si tratta di profili diversi che comunque si possono integrare ed arricchire vicendevolmente.
Fr Beppe
 

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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