mercoledì 1 febbraio 2012

Due ore a Tuuru

Un pomeriggio di fine Gennaio 2012, partiamo in jeep con Fr. Roberto e con due disabili, verso Tuuru. Due ore di macchina, due ore di soggiorno, il tempo per incontrare Agnese e riportarla a Chaaria, il tempo per incontrare le suore, bere una bibita e soprattutto dire una preghiera sulla tomba di Suor Oliva.
La jeep parcheggiata sul grande prato della missione, mi sta aspettando. Mi sento sfiorare e vedo la mamma di Cecilia. I ricordi affiorano nella mia mente:
l’anno scorso a Tuuru, mentre ero a lavorare in maternity, ho conosciuto questa giovane donna, forse 20 anni o pochi piu’, alta, brutta, strabica, deficiente nel parlare, quelle poche parole che pronunciava, non le capiva neppure Suor Oliva.
Qualche persona, se cosi’ si puo’ chiamare, purtroppo, aveva abusato di lei…….
Da un giorno era nata la piccola Cecilia, bruttina, rassomigliava alla mamma, aveva una malformazione molto pronunciata ad entrambe le orecchie. Ricordo la pena, che ancora mi accompagna, nei confronti di queste creature. Le sono stata vicino, quando alla mamma ho fatto il dono di un foulard variopinto mi ha sorriso stupita e senza parlare. In seguito sono andata a trovarla nella sua baracca sgangherata, ho dovuto impegnarmi per non piangere. Ho lasciato cadere una goccia in mezzo al mare. Dopo pochi mesi, pero’ la piccola Cecilia e’ diventata un angelo del Paradiso.
Oggi l’erba ha attutito i passi della mamma di Cecilia, era accanto a me, mi ha guardato, mi ha sorriso con gratitudine che non sento di meritare, timidamente ha messo la sua mano nella mia. L’ho abbracciata, l’ho baciata e le ho detto: “Dio ti benedica e ti tenga lontano dai lupi”: giovane donna, che non conosco neppure il tuo nome, ma per me rimarrai sempre la mamma di Cecilia.
Salgo sulla jeep e non posso piu’ trattenere le lacrime. Signore e’ questo il tuo volto?

Rosella

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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