mercoledì 8 febbraio 2012

La mia ora di preghiera

E’ cosi’ frequente per me non riuscire a partecipare alla preghiera comunitaria che e’ ormai un luogo comune dire che io a pregare non ci sono mai.
Onestamente pero’ lo sforzo ce lo metto davvero, ma spesso le circostanze mi impediscono di tradurre in fatti i miei desideri.
Ieri per esempio, nonostante la pesantissima giornata in sala operatoria, sono riuscito a sgattaiolare via dall’ospedale verso le ore 19 e mi sono nascosto in cappella.
Per i primi dieci minuti ho con forza lottato contro una tremenda botta di sonno che e’ abbastanza tipica per me ogni volta che mi siedo, dato il ritmo convulsivo delle giornate di Chaaria.
Mi sono svegliato di soprassalto quando Fratel Dominic ha iniziato il rosario, ed ho deciso di assumere una posizione confacente allo stato di veglia. Mi sono seduto con la schiena ben eretta senza toccare il muro, in modo da non avere uno schienale che potesse favorire il mio impercettibile scivolamento tra le braccia di Morfeo.
Ho anche cercato di non chiudere assolutamente gli occhi durante la recitazione della “ave marie”.
E’ andata abbastanza bene per la prima decina, ma non appena il confratello ha proclamato il secondo mistero, ho visto con la coda dell’occhio che la porta della cappella si apriva lentamente: ho pensato che fosse Kimani, il quale spessissimo viene a pregare con noi con una puntualita’ ben superiore alla mia!
Invece la mia attenzione e’ stata attratta dal fatto che la porta rimaneva aperta, ma nessuno entrava.
Ho quindi girato la testa ed ho scorto Faith in divisa da sala operatoria, la quale mi guardava fisso senza proferire verbo: questo e’ il modo solito per invitarmi ad uscire, senza disturbare la preghiera degli altri. Faith non entra mai, a meno che mi trovi completamente addormentato... nel qual caso fa due passi in punta di piedi e mi da’ uno scrollone sulla spalla!
Mi sono quindi ricomposto e l’ho seguita: non si trattava di un cesareo come sospettavo, ma di una mamma che non riusciva a partorire per mancanza di valide contrazioni, mentre il battito cardiaco fetale peggiorava rapidamente.
In pochi secondi mi sono quindi risettato dal rosario alla necessita’ di una decisione clinica rapida ed efficiente.
Dopo una breve visita mi sono reso conto che il cesareo non sarebbe stata davvero un’opzione possibile: ci sarebbe voluto troppo tempo per la preparazione della paziente e per l’allestimento della sala.
Ho quindi optato per la ventosa ostetrica, che non amo tantissimo ma che in questo caso mi e’ sembrata l’unica possibilita’.
Il battito era infatti tremendamente lento, ed agire velocemente era imperativo.
Il parto medicalizzato non e’ stato cosi’ facile ed immediato come speravo, ma alla fine abbiamo tirato fuori quel pupo: aveva due giri di cordone attorno al collo, e questa era quesi certamente la causa delle pericolose decelerazioni del battito durante le contrazioni. In pratica era come se il piccolo venisse strangolato sempre di piu’ ogni volta che la mamma spingeva.
Infatti il neonato ha sofferto moltissimo per la sua venuta al mondo: non respirava affatto, anche se il battito del suo cuoricino era discreto.
Lo abbiamo rianimato con ambu, ossigeno e massaggio cardiaco; pian piano il respiro ha dato segni di attivita’ spontanea, e poi e’ diventato via via piu’ regolare, mentre le condizioni si sono stabilizzate.
E’ stato un bel sospiro di sollievo per me. Temevo veramente che il piccolo sarebbe morto!
Ho quindi consigliato di porre il neonato in incubatrice e sono corso nuovamente in cappella: il rosario era ormai terminato ed ho trovato i confratelli che cantavano il Magnificat del Vespro.
Mi sono unito a loro per i minuti rimanenti delle nostre devozioni serali.
Mi sento sempre abbastanza a disagio quando entro in chiesa a pochi minuti dalla fine; ma cerco normalmente di vincermi, pensando al vecchio proverbio che dice: “meglio tardi che mai!”
Ecco come e’ passata anche ieri la mia ora di preghiera... ma sono sicuro che il Signore vede e comprende molto meglio degli uomini!

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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