giovedì 26 aprile 2012

Lettera di Massimo


Ciao Beppe, 
tra poche ore ho il volo di rientro; volevo salutarti e ringraziarti per le belle parole sul blog...sono stati mesi non facili; l'impatto è stato molto forte, ho sofferto molto soprattutto i primi giorni...e poi il quotidiano confronto con la sofferenza e con la morte, a volte riguardante i bambini...in Italia non ci siamo assolutamente abituati, almeno non con questa frequenza...all'inizio non riuscivo ad accettarlo, provavo un enorme senso di impotenza e frustrazione..."Hakuna matata daktari" mi dicevano le infermiere, per incoraggiarmi quando i primi giorni mi vedevano sconsolato davanti a qualche cadavere, spesso di persone giovani...una sensazione terribile, ho provato dolore fisico...poi però anche soddisfazioni e gratificazioni...mai potrò dimenticare i sorrisi raggianti e i ringraziamenti di quando i pazienti andavano via con il loro abito migliore salutando poi affettuosamente tutti i loro compagni di avventura...ti ripagavano di tutto e potevi iniziare un altra giornata di lavoro...mi sento di poter dire che sto tornando in Italia arricchito sia professionalmente che umanamente da questo incontro con una realtà così meravigliosa e complessa come quella di Chaaria...sono contento di essere venuto e già so che mi mancherà tantissimo…
Un abbraccio enorme ed un saluto a tutti, le ragazze della sala, Jesse, e poi Joyce, Peter e tutti gli infermieri..i fratelli e tutte le persone che non sono riuscito a salutare...il tempo è volato alla fine...
Arrivederci a presto,

Massimo  


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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