mercoledì 18 aprile 2012

Una malformazione fetale

Mancavano due minuti alla Messa domenicale quando sono stato chiamato in sala parto. Mi hanno detto che la donna non spingeva adeguatamente e la testa del bambino era quasi fuori.
Ho chiesto all’infermiera se avesse sentito il battito fetale, e lei umilmente mi ha comunicato che la donna era arrivata in quel momento ed in quella situazione; che si contorceva come un serpent e che non era stato possibile valutare l’attivita’ cardiaca del nascituro.
A questo punto ho semplicemente affermato: “facciamo in fretta ad estrarre, in modo che non sia troppo tardi per il piccolo!”.
Con un po’ di spinta sul fondo uterino da parte mia, la testa e’ uscita abbastanza celermente. A questo punto pensavo di aver concluso la mia opera, in quanto uno degli assiomi dell’ostetricia e’ che, quando la testa e’ fuori, il corpo poi segue senza grossi problemi.
Ma gia’ qualcosa non mi quadrava. Quella testolina era molto piccola, come quella di un “settimino”, mentre l’addome era enorme… saranno gemelli?
Inoltre la cute della faccia si stava completamente staccando, in un processo direi di decomposizione.
“Proviamo a estrarre il feto: cosi’ piccolo dovrebbe uscire con una trazione minima del capo”. Ma contrariamente alle nostre aspettative il bambino “non veniva”. Abbiamo tirato fino alla disperazione, mentre la mamma continuava ad essere poco collaborante e si metteva in tutte le posizioni possibili, tranne che in quella che avrebbe favorito il nostro lavoro.
Ci siamo comunque resi conto che, continuando a tirare, avremmo decapitato quel bambino. D’altra parte doveva esserci un ostacolo alla progressione nel canale del parto, se non riuscivamo ad estrarlo con tutta la nostra forza.
Ho deciso quindi per una ecografia urgente al lettino da parto: desideravo vedere se il feto era vivo, e che cosa impediva il parto. Poi mi volevo rendere conto se il gemello che presupponevo ancora in utero stava bene.
Ma la mia sorpresa e’ stata grande: si trattaba di un unico bambino. Non c’era battito fetale. Braccia e gambine erano piccolissime, e corrispondenti ad un’eta’ gestazionale di circa 26-28 settimane, mentre l’addome era enorme e completamente pieno d’acqua: si trattava di una malformazione gravissima chiamata idrope fetale. Il bimbo quindi era morto da tempo, e questo spiegava i segni di macerazione sulla cute del volto. Le dimensioni dell’addome materno erano legate alla malformazione, e non ad una gravidanza gemellare.
Ora si imponeva una decisione difficilissima sia per me che per la madre. Quell’enorme e mostruoso fetino non sarebbe mai uscito con parto naturale. Si imponeva il cesareo, per salvare la vita della paziente, e per poterle permettere altre gravidanze in futuro.
La donna piangeva disperatamente e continuava a contorcersi nel lettino da parto, ripetendo in lacrime: “ Perche’? Perche’?”
Ho quindi deciso di lasciarla metabolizzare e rielaborare il suo lutto, e sono andato a quel che rimaneva della messa domenicale in lavanderia.
Fortunatamente poi la mamma ha compreso ed accettato l’intervento. Ho dovuto fare io la spinale in quanto era domenica, ma il Signore mi ha aiutato e ci sono riuscito senza grosse difficolta’.
E’ stato Pietro l’operatore, insieme ad Alice.
Non e’ stato bello fare quel cesareo, in quanto sapevamo che stavamo estraendo un corpicino senza vita… ed e’ stato anche piuttosto difficoltoso perche’ le dimesioni enormi dell’addome fetale hanno impedito un’estrazione cefalica. Pietro ha dovuto procedere ad in rotazione interna del bimbo che poi e’ uscito per via podalica.
L’addome mostruosamente dilatato; gli arti piccolissimi e sproporzionati; la cuta ecchimotica e in preda a processi di macerazione hanno reso la visione di quel bambino veramente impressionante. La mamma era sveglia, ma non l’ha voluto vedere. Ci ha solo chiesto di che sesso era.
E’ una cosa che non guardiamo mai nei moment di tensione.
Sono quindi corso in sala parto per confermare, e poi gliel’hocomunicato mestamente: “era un maschietto”.
Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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