mercoledì 17 ottobre 2012

Barriere linguistiche e "qui pro quo"

In maternita’ la volontaria italiana e’ alle prese con un parto.
La mamma sta spingendo bene; la volontaria vuole incoraggiarla a non rilassarsi e le ripete, ad ogni contrazione: “ancora... ancora...ancora”
Naturalmente la nostra partoriente non ha la piu’ pallida idea di cio’ che quella strana parola italiana possa voler dire, ma desidera comunque obbedire a quel dottore bianco che la sta aiutando ad avere il suo figlio primogenito.
Essa pensa quindi alla parola Kimeru piu’ vicina possibile al suono arcano che le viene ripetuto con cadenza ritmica. Le pare che la similarita’ piu’ probabile sia con “kora”, che e’ l’imperativo del verbo tossire.
“Magari, tossire mi fara’ avere il bimbo piu’ in fretta!”
Io entro per caso in sala parto; vedo la nostra volontaria intenta nel suo lavoro, e la mamma che tossisce forsennatamente ad ogni contrazione.
Chiedo alla donna come mai ha tanta tosse e le suggerisco di cercare di spingere con la bocca chiusa, controllando la tosse... altrimenti la forza espulsiva delle contrazioni si perde parzialmente, non avendo piu’ il contributo del diaframma sul fondo uterino.
E lei mi confessa candidamente: “io non ho la tosse, ma sto facendo quello che la mia ostetrica mi dice di fare”.
Accidenti alla torre di Babele!
Le barriere linguistiche sono sempre un problema!
Ricordate quell’altro caso in cui l’ostetrica italiana continuava ad urlare alla partoriente: “stai giu’!”, ed io sono entrato in maternita’ trovando la povera donna inarcata con il bacino sempre piu’ in alto e con gli unici punti di appoggio alla barella costituiti dal collo e dalla punta dei piedi?
Eh gia’, perche’ in kiswahili “juu” (che si pronuncia esattamente come “giu’” in italiano) significa “su”.
Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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