Agnes è post-termine, cioè ha abbondantemente superato la
data stimata del parto ed è ormai gravida da quasi 10 mesi senza segni di
travaglio. L’ecografia ha indicato che ci sono segni di insufficienza
placentare, per cui il feto potrebbe correre dei rischi se non si interviene
subito.
Non è una primipara (ha cioè già partorito), per cui si pone
l’indicazione per un cosiddetto parto medico: in pratica si tratta di usare un
farmaco chiamato ossitocina per indurre le contrazioni dell’utero.
E’ in effetti una procedura sempre molto ansiogena per me in
quanto gravata da alte percentuali di effetti collaterali anche gravi, oltre
che di insuccessi.
Mettiamo la flebo e regoliamo le gocce con attenzione,
incrementandole ad intervalli regolari in modo da provocare l’inizio ed il
mantenimento di un dolore tale che sia sufficiente a far progredire il travaglio,
ma senza causare danni al feto.
Si tratta di una operazione complessa, che ci impegna a
fondo per molte ore: bisogna controllare il flusso dei liquidi, monitorare il
battito cardiaco fetale e le condizioni della madre.
Per Agnes sembra che tutto proceda per il meglio: buone
contrazioni, battito fetale sempre regolare, dilatazione della cervice
soddisfacente.
Passo da lei più volte e le ripeto: “Dio ti è vicino e tutto
e ok”.
Agnes partorisce senza complicazioni verso le ore 19: è
esausta ma sorride alla vista del suo bambinone di 3.500 g. Non c’è una
importante emorragia post-partum, e tutto sembra essersi risolto nel migliore
dei modi e secondo le nostre aspettative.
Il problema inizia qualche minuto dopo, quando la paziente
viene riaccompagnata a letto. Appena messe giù le gambe dalla barella,
stramazza a terra in un bagno di sudore freddo. Non risponde quando la chiamiamo
e pare incosciente. La assistiamo in quattro e la rimettiamo sul lettino da
parto. Le solleviamo le gambe e le mettiamo dei liquidi in vena che scendano a
go go.
In un attimo si riprende; sorride e non si rende conto di
come mai, dopo essersi alzata per andare in camera, si trova ora sulla stessa
barella da cui era partita. Le spieghiamo l’accaduto, e le diciamo che
probabilmente questo incidente è stato causato semplicemente dalla stanchezza
ed dal fatto di aver digiunato per molte ore. Le consigliamo quindi di mangiare
qualcosa.
Non le permettiamo più di camminare e la portiamo in stanza
con la lettiga. Verso le ore 22 però Agnes comincia ad essere molto agitata.
Dice di avere un fortissimo mal di pancia. Le guardo le congiuntive e la mucosa
del labbro inferiore e mi paiono bianche come un pezzo di carta. So già di cosa
si tratta, ma cerco di ricacciare l’idea nel subconscio. Le tocco la pancia che
ora è gonfia come un pallone ed ha assunto nuovamente le dimensioni che aveva
prima del parto: la palpazione anche leggera del basso ventre provoca un urlo
disperato che induce anche una sudorazione profusissima.
Raccolgo le energie e, vincendo la mia riluttanza, penso
allo staff a disposizione. Invio un sms a Jesse pregandolo di venire
immediatamente.
“Dobbiamo trasfondere adesso, ed aprire questo addome il più
velocemente possibile: deve essere una emorragia interna”.
La sala viene preparata in tempi record e operiamo con tanta
ansia. Jesse è padrone della situazione, anche se mi dice che la pressione
della donna sta scendendo a precipizio e che devo fare in fretta perché la paziente
sta già perdendo i sensi.
Ancor prima di aprire il peritoneo, un sinistro colore
bluastro della superficie mi suggerisce l’ineluttabile: “aspiratore subito!...
L’addome è pieno di sangue”.
Appena incisa la sottile membrana peritoneale veniamo invasi
da un fiotto enorme di sangue scuro ormai in parte coagulato. Anche i nostri
vestiti sono già imbrattati ed i nostri zoccoli di gomma sguazzano ora nel
liquido che continua a colare, nonostante i nostri sforzi di aspirazione.
Laviamo con acqua fisiologia e vediamo il disastro in tutta la sua crudezza:
durante le contrazioni Agnes aveva rotto l’utero contraendone una violenta
emorragia nel legamento largo. Altro che digiuno e stanchezza. Era collassata
in sala parto perché già sanguinava! Ancora una volta mi sento frustrato.
L’ossitocina ci ha traditi nuovamente, e questa volta in un travaglio che era
andato per il meglio. Com’è difficile a volte scegliere: cesarizzare troppo
certo è sbagliato, ma guarda che disastri può fare anche un parto pilotato.
Lavoriamo velocemente per trovare e chiudere tutti i vasi
arteriosi sanguinanti. La breccia nella parete uterina è veramente grossa, ma
la mano di Dio ci aiuta, e pian piano riusciamo a suturare e ricostruire l’organo,
senza fare una isterectomia: sarebbe stato veramente un disastro per questa
giovane donna che quasi sicuramente desidererà un terzo figlio.
Intanto le sacche di sangue iniziano ad avere il loro
effetto benefico. La pressione si normalizza e Agnes riprende coscienza e
forza. Mentre ancora le stiamo cucendo la cute, ci chiede del suo figlioletto;
e noi le assicuriamo che è al sicuro in una incubatrice. Poi aggiunge: “Ma
perché sono in sala operatoria? Non avevo partorito normalmente?”.
“Adesso è un po’ complesso spiegarti: hai avuto qualche
piccolo problemino e hai perso momentaneamente coscienza: abbiamo dovuto agire
in fretta e senza chiederti il consenso perché sei andata ad un passo dalla
porta di San Pietro, e noi ti abbiamo riacciuffata per i capelli. Ora però sei
tornata indietro, e sei in piena forma per riprendere la tua missione di
mamma”.
Mentre vado a letto sono ancora molto scosso: ma guarda che
disastro ha fatto l’ossitocina, anche se data alle dosi giuste e nei tempi
prestabiliti! Meno male che poi Agnes è stata male prima della dimissione:
immagina cosa sarebbe successo se il sanguinamento si fosse manifestato magari
dopo due o tre giorni, quando lei era già a casa. Non posso pensarci. Posso
solo dire che davvero c’è sempre bisogno che Dio ci tenga una mano sulla testa,
perché sbagliare è facilissimo, ed i nostri errori quasi sempre rischiano di
essere fatali.
Fr Beppe
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