domenica 18 novembre 2012

Buio


Sto facendo un  brutto sogno che non ricordo. Cio’ di cui conservo la percezione e’ che si trattava di una scena concitata e ansiogena. E’ gia’ passata la mezzanotte, e sono nelle prime fasi REM della notte che mi auguro calma e riposante.
Ed invece il cicalino gracchia ripetutamente. Io mi muovo come uno zombi, facendo fatica, per qualche minuto, a capire che stavo sognando e che ora mi trovo nella mia camera alla ricerca disperata dell’abat jour. Finalmente lo trovo, ma il pulsante non da’ alcun segnale di vita: “ah gia’, il black out!”. Non e’ un’operazione semplice neppure raggiungere il cercapersone, ma lo identifico sia grazie alla posizione familiare sul comodino, sia sotto la guida della piccola lucina rossa che lampeggia su di esso. “C’e’ una mamma HIV in travaglio. Bisogna cesarizzarla subito”, mi urla Evanjeline dal ricevitore.
“Ma non ce la fa a partorire da sola?”... provo ad accenare, in un atto di tenue autodifesa.
“No! La donna e’ stata informata che il taglio cesareo garantisce piu’ certezze sul fatto che il figlio non sara’ contagiato”.
“Okay, ho gia’ capito che anche stanotte si balla”.
Chiamo quindi Giancarlo con lo stesso cicalino, e mi preparo a scendere in ospedale. Ma ecco che si presentano nuovi ed inaspettati problemi. Fuori non c’e’ la luna e ci circonda il buio assoluto. Tento di cercare le ciabatte, ma non e’ un’impresa facile. “Dove sara’ la mia pila?”. A tentoni arrivo al tavolo, che setaccio palpando qua e la’, finche’ la trovo. Esco di camera, ma e’ davvero tutto nero. Quando e’ buio, e’ buio davvero in Africa!
Il cielo invece e’ trapuntato di stelle. Sono miliardi sulle nostre teste: davvero sempre uno spettacolo mozzafiato. Passo attorno al centro dei Buoni Figli, completamente avvolto nelle tenebre. Li sento respirare pesantemente nel sonno, o emettere saltuariamente i loro gridi cadenzati.
L’ospedale non appare quella cattedrale di luci al neon, che mi accoglie di solito, quando lo raggiungo di notte per una emergenza. Dalle finestre si scorgono appena i fiochi riflessi delle luci dei pannelli solari.
Arrivo in dispensario. In sala parto, essendo un ambiente ristretto, ci si vede quasi bene con il neon del pannello.
Le infermiere sono gia’ in uniforme verde da combattimento. La mamma e’ serena, e riposa sulla barella in attesa di essere accompagnata in sala.
Mi avvio all’esterno, e, al secondo colpo, riesco a far partire il generatore piccolo. D’incanto tutto il dispensario e la piccola sala operatoria si illuminano, e noi possiamo entrare. Lavoreremo cullati dal noioso ronzare del motore a benzina che ci sta permettendo di vedere, ma non potremo inserire l’aria condizionata, perche’ troppo esigente per il modesto gruppo autogeno.
Abbiamo ormai sistemato la donna sul lettino e l’assistente mi offre gli strumenti per la spinale. Mentre mi metto i guanti, guardo con apprensione alla marcata scoliosi di quella schiena. “Che Dio ce la mandi buona per questa puntura lombare... speriamo di non doverla bucare tante volte, sia per non farla soffrire troppo, sia perche’ e’ anche sieropositiva”.
Come sempre pero’, il Signore lavora con noi e tutto procede per il meglio: malata bravissima, “bambinone” bellissimo, e nessuna complicazione.
Dopo la chirurgia, aziono nuovamente la chiavetta di accensione ed il generatore torna a tacere; la vita notturna riprende quindi in un clima di semi oscurita’: Evanjeline sutura una episiotomia alla luce dei pannelli, ed assiste il neonato con un aspiratore a pedale. Lydia cerca di prendere la vena ad un anziano con la stessa fioca luminosita’. Io e Giancarlo salutiamo e ci facciamo strada nel profondo nero della notte con le nostre torce tascabili. “Che cielo incredibile... certo che una scena cosi’ ripaga anche del fatto che sono quasi le due”.
 
Fr Beppe 


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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