venerdì 14 dicembre 2012

Stigmatizzazione


GG e’ una signora sui 35 anni che da molto tempo sa di essere sieropositiva.
Lei ha deciso la via della completa apertura ed e’ diventata una attivista della prevenzione e dell’accettazione all’interno della societa’ delle persone con HIV. Ne parla in chiesa, e’ disponibile per il counseling dei malati, e partecipa a molti seminari sul tema.
GG era vedova e gia’ aveva  una bambina quando l’infezione le era stata diagnosticata per la prima volta.
Purtroppo anche la piccola era risultata positiva.
Da anni entrambe sono in terapia antiretrovirale.
La piccola WK e’ sempre stata gracile e magrissima, ma sostanzialmente in discrete condizioni di salute.
Adesso ha dodici anni e frequenta la quinta elementare.
Piu’ passa il tempo pero’, piu’ difficile diventa convincerla ad inghiottire medicine tutti i giorni; WK continua a chiedere alla mamma: “i miei compagni dicono che ho l’AIDS. Mamma, e’ vero?”
Sia io che la madre per adesso le abbiamo parlato solo di una malattia cronica, che comunque le permettera’ di diventare grande, se avra’ la costanza di andare avanti con le pastiglie per molti anni ancora.
GG sente pero’ crescere la discriminazione da parte dei compagni, che probabilmente sono istruiti dai genitori ad evitare WK il piu’ possibile.
Il fatto che GG sia diventata un’attivista dell’integrazione paradossalmente si e’ rivelato un boomerang che sta portando a sempre maggiore discrinazione verso sua figlia... purtroppo anche da parte di certi insegnanti.
GG mi ha quindi chiesto il favore di cercare un’altra scuola per la figlia, possibilmente una scuola-convitto un po’ lontana da Chaaria dove ormai la stigmatizzazione e’ fortissima...WK ha infatti un’adozione a distanza in Italia che ci permette di pagarle la scuola.
Ho trovato una disponibilita’ di fondo in una scuola di ispirazione cristiana a qualche decina di chilometri da Chaaria.
WK e’ stata invitata per un test di prova al fine di verificare il livello di preparazione raggiunto nelle classi precedenti.
All’esame e’ stata accompagnata dalla mamma in persona... io non ho potuto, a causa della situazione in ospedale!
WK e’ stata brillantissima ed ha preso dei voti bellissimi in tutte le materie.
A questo punto, quando l’accettazione pareva affare fatto, GG ha deciso di ripetere nuovamente alla preside il problema della figlia per la quale chiedeva l’ammissione a scuola in regime di “interna” (cioe’ in collegio).
E’ allora che la doccia fredda e’ arrivata!
Anche se lo sapevano da me, in consiglio avevano avuto un ripensamento, per cui WK avrebbe potuto frequentare solo come “esterna”, senza dormire ne’ mangiare con gli altri.
La preside era una suora!
GG e’ venuta a dirmelo piangendo, ancora una volta messa alle corde dalla discriminazione e dalle paure irrazionali della gente.
Mi ha detto di aver chiesto alla preside: “non hai visto i risultati del test? Vuoi dire che lei non puo’ studiare solo perche’ e’ positiva?”
Mi ha confidato che a questa domanda e’ seguito solo un silenzio imbarazzato e senza risposte.
Ho detto a GG che cercheremo ancora, e che Dio aprira’ qualche altra porta.
Le ho raccontato che una esperienza simile era successa anche ad alcuni dei nostri ragazzi del Cottolengo Centre di Nairobi. Le ho raccomandato di non focalizzarsi sul fatto che la preside fosse una suora: e’ una situazione generalizzata di feroce discriminazione dettata solo dall’irrazionalita’. Purtroppo non abbiamo ancora superato una mentalita’ da “peste manzoniana” per quanto riguarda l’HIV: tanti sono ancora pronti a puntare il dito ed a giudicare chi e’ sieropositivo; molti ne hanno cosi’ paura che dimenticano la carita’ in nome della prevenzione.
Ma, ancor piu’ degli adulti, sono i bambini che piu’ mi fanno tenerezza e tristezza nello stesso tempo.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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