giovedì 13 dicembre 2012

Il sistema operativo è l'amore

C’è un piccolo romanzo di Italo Calvino, intitolato La giornata di uno scrutatore, che varrebbe la pena conoscere. Pubblicato nel 1963 (la stesura è di dieci anni prima) racconta la vicenda di un giovane intellettuale torinese designato scrutatore del PCI al seggio elettorale posto all’interno di una casa che ospita handicappati per evitare possibili raggiri elettorali della DC.

In quella giornata di fine primavera, ma il mattino è grigio (7 giugno 1953), il protagonista Amerigo Ormea entra al “Cottolengo di Torino” e rimane imbrigliato in un’umanità mai vista. Davanti si trova “ragazzi-pesce”, creature deformi, inimmaginabili. Di fronte a tale mistero la sua mente cerca di catalogare e definire: «Fino a che punto un essere può dirsi un essere, di qualsiasi specie?»; «fino a dove un essere umano può dirsi umano?».
Di fronte a questa stessa realtà, quasi cento anni prima, un giovane conte torinese in visita all’opera di Cottolengo, Camillo Benso di Cavour, si chiedeva cosa vi sia di sacro nel diritto alla vita di questi esseri così segnati dalla sofferenza. E nel 1975, in Le mie ragioni, Adele Faccio scriverà: “Fatemi capire perché bisogna difendere il diritto alla vita di migliaia di esseri deformi, inadatti, incompleti, che riempiono quel museo degli orrori che è il Cottolengo. Fatemi capire perché è sacro il diritto di venire al mondo di un handicappato che poi nessuno difenderà”.
L’Amerigo Ormea di Calvino mentre pensa, ragiona, mentre quasi «vuole fare un discorso sulla società come avrebbe dovuto essere secondo lui», deve però fare i conti con le suore liete, serene, che dedicano ogni attimo della loro vita, a quell’umano nascosto, che chiede di essere incontrato e amato, e che lui vorrebbe, invece, cancellare tout court, non si sa come. In verità, osservando la letizia delle suore, Amerigo si domanda: «Una beatitudine esiste? (e se esiste allora va perseguita?)». E conclude con una commovente descrizione di un ragazzo handicappato che il padre viene sempre a trovare, ogni domenica, solo per vederlo masticare: “Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore… l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo».
La storia di Giuseppe Cottolengo è, effettivamente, segnata dall’allargamento a dismisura di confini. Sacerdote borghese ben piazzato, intelligente e stimato dai politici e dai giovani intellettuali del suo tempo. Tuttavia inquieto. Partecipa alle solenni cerimonie cittadine sempre in posizioni d’onore, ma sempre più si domanda «che senso hanno le fibbie d’argento e la cappa di porpora in un mondo come questo». Si infiamma alla lettura delle imprese di un grande uomo della carità come S. Vincenzo, ma poi si scoraggia perché sente che “gli mancano le forze” per imitarlo. Nella sua breve vita – muore a 56 anni – Giuseppe Benedetto Cottolengo ne passa 41 senza riuscire a capire re fino in fondo se stesso né a decidersi: insoddisfatto fino a quando Dio non gli ferì violentemente il cuore. È la domenica mattina del 2 settembre 1827…

Leggi: A. Sicari, Ritratti di Santi, pp. 88.

Gli ultimi quindici anni che gli restano da vivere Giuseppe Cottolengo li riempirà come e più di una intera vita, tanto da essere definito da Pio XI, che lo canonizzerà il 19 marzo 1934, il «genio del bene».

Questo incontro, di cui è costretto a essere testimone, è per Cottolengo un richiamo, che cambia l’esistenza. In quindici anni crea un’opera immensa: prima un paio di camerette, in cui assiste più di duecento malati, poi un asilo infantile, poi la famiglia dei sordomuti, quella degli adolescenti caratteriali, quella degli orfani, degli invalidi, degli handicappati, degli epilettici, di coloro che negli altri ospedali vengono rifiutati. Nasce in breve una cittadella, la Piccola casa della divina provvidenza: un nome paradossale, per un luogo in cui le miserie umane più terribili si accumulano e si incontrano con la grandezza dell’amore di altri uomini.

Se c’è un terreno su cui tutti sembrano potersi incontrare, anche al di là delle fedi, questo è il terreno della “carità”, dell’amore all’altro. Ed è questo il terreno su cui è nata, cresciuta e continua a svilupparsi l’esperienza dell’Associazione Volontari Cottolengo Mission Hospital. Essa è uno dei frutti nati dall’opera di un uomo, un prete cristiano che si è lasciato toccare e cambiare dalla sconvolgente visione del dolore e del bisogno altrui.
Chi si avvicina al Cottolengo – e le strade che vi conducono sono sorprendentemente diverse! – sappia che tutta l’opera è informata, sostenuta e orientata da quello che in gergo cristiano si chiama «carisma», cioè un «dono» speciale per il mondo. Il dono speciale fatto a Giuseppe Cottolengo, da lui accolto e da lui moltiplicato si chiama, appunto, carità.
Come scrive fratel Beppe, direttore dell'ospedale: «Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno. Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati. Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi. Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”. Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi. E poi, andare dove? Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi. Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile. Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso. Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato. Questo è quello che facciamo, ogni giorno».
Il volontario del Cottolengo è invitato a condividere questo sogno e le responsabilità che ne derivano (cfr. Statuto, art. 4). Il volontario del Cottolengo si inserisce in questo.
È l’amore il sistema operativo del Cottolengo; le "app" espandono e potenziano le possibilità di questo sistema, ma senza di esso anche le applicazioni più sofisticate non servono a nulla.
I volontari – chiunque essi siano, qualunque sia il loro credo e la loro motivazione – che donano e condividono tempo, risorse e professionalità non lo fanno nel vuoto, ma si installano in un sistema che li accoglie, che li valorizza e dà loro la possibilità, contemporaneamente, di offrire e di ricevere.
La conoscenza e il rispetto di questo sistema operativo, l'amore appunto,  (e incluso in questo rispetto, la verifica della nostra compatibilità) rende possibile ed efficace ogni lavoro a Chaaria.

Silvia Zanconato

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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