Qualcuno potrebbe affermare che si tratta di “scarogna”; altri forse
parlerebbero di strane congiunzioni astrali; qui da noi molta gente
direbbe che si tratta di malocchio.
Il fatto comunque rimane: i week end a Chaaria sembrano stregati.
E’ come se tutte le complicazioni piu’ strane si dessero
l’appuntamento per colpire proprio nel momento in cui siamo piu’
vulnerabili a causa della assenza del dott Ogembo e di Jesse.
Anche lo scorso fine settimana e’ stato “secondo copione”. Tanti
pazienti hanno affollato i nostri corridoi, al punto da farci
domandare se non sia successo qualche cosa di collettivo nella mente
della gente: forse tutti al giorno d’oggi pensano che, scegliendo di
venire di sabato o di domenica, faranno meno coda e saranno serviti
prima.
Pero’ essi non considerano che, se inconsciamente questa
diventa una decisione collettiva, i tempi di attesa non saranno certo
inferiori che al lunedi’... anche considerando la riduzione dello
staff in servizio.
I cesarei del week end sono stati molti; ma questo non e’ piu’
realmente un problema per noi: ne abbiamo fatti cosi’ tanti, che ormai
si tratta di una normale pratica quotidiana.
Ma sabato pomeriggio il “malocchio” si e’ ripresentato puntualmente.
Erano le ore 15 ed avevamo appena finito con l’ennesimo cesareo.
Eravamo affamati e senza pranzo... e tutti pensavamo che forse ci
saremmo potuti rilassare un po’ durante il pomeriggio.
Invece e’ arrivata Gladys da Mukothima.
Non si reggeva in piedi ed aveva un dolore addominale fortissimo.
Sapeva di essere incinta da due mesi, e pensava di avere una minaccia d’aborto.
Dopo una emoglobina misurata al volo, ci siamo resi conto che era
molto anemica e che avremmo dovuto attivarci velocemente per un paio
di trasfusioni urgenti.
Meno male che c’era Paolo, il quale ci ha sostenuti puntualmente in
laboratorio. Ringraziando Dio poi avevamo due sacche di sangue
compatibile in frigo... se no saremmo stati fregati.
Gladys infatti e’ giunta a noi da sola.
L’ecografia e’ stata spietata.
Il ‘fetino’ era morto... purtroppo non nell’utero, bensi’ in un
groviglio di materiale strano a sinistra di esso. C’era fluido
abbondante in cavita’ addominale.
Ho praticato una aspirazione ecoguidata del liquido peritoneale, e,
senza grossa sorpresa, ne ho ricavato sangue scuro.
La diagnosi purtroppo era fatta, ma quel groviglio di materiale strano
puzzava gravemente di “grane”.
Siamo entrati in sala con il cuore in gola. La donna era instabile ed
eravamo pienamente coscienti del fatto che ci sarebbero stati eguali
rischi di perderla per problemi legati all’anestesia, come per
difficolta’ nella gestione dell’intervento.
Abbiamo aperto la pancia lentamente, incidendo prima la cuta, poi il
giallo strato dell’esiguo tessuto grasso che la povera paziente ha
potuto accumulare nella sua misera vita; quindi la fascia
madreperlacea che le proteggeva i muscoli flaccidi. Divaricati questi
ultimi ci siam trovati di fronte al foglietto peritoneale: non ci
piaceva la sua apparenza. Aveva infatti perso il colore ocra, ed
appariva di una cupa tonalita’ violacea.
All’improvviso Michele si e’ lasciato scappare un commento che a tutti
noi e’ parso comunque lapalissiano: “la paziente ha emoperitoneo!”.
Abbiamo inciso con circospezione, ed immediatamente siamo stati
sommersi da una cascata di coaguli e sangue fresco che il nostro
aspiratore non riusciva a ‘succhiare’. Tiravamo fuori anche non le
mani, ed il pavimento della sala ne e’ stato subito allagato.
“Se non vediamo, non riusciremo mai ad operare”, continuava a
ricordarmi il chirurgo.
Poi finalmente le nostre cucchiaiate ed il nostro aspiratore hanno
avuto la meglio. Ma quello che si e’ presentato al nostro sguardo
pareva un campo di battaglia.
Tutti gli organi erano appiccicati gli
uni agli altri. L’utero era ormai ridotto ad una massa necrotica
impossibile da salvare. Anche la vescica era in pessime condizioni, e
sanguinava abbondantemente.
Eravamo tesi ed un po’ scoordinati, perche’ non sapevamo “che pesce
pigliare”... pian piano ci rendevamo conto che la gravidanza
extrauterina doveva essere stata di tipo cronico.
Probabilmente la
malata aveva avuto male per molti giorni, ma non aveva avuto i soldi
per andare all’ospedale. La patologia aveva quindi avuto il tempo di
complicare con una grave infezione che gradualmente le aveva causato
necrosi dell’utero.
“Dobbiamo isterectomizzarla”, mi diceva ancora Michele.
Io ho avuto un attimo di esitazione in quanto Gladys dormiva e non le
avevo neppure chiesto se aveva dei figli oppure meno. Poi ho guardato
la sacca di sangue (l’ultima a mia disposizione) che entrava goccia
dopo goccia nelle sue vene, e l’aspiratore che ancora risucchiava
materiale scarlatto dalla sua pancia.
Lo sapevo che mi dovevo sostituire alla volonta’ di Gladys, se
volevamo salvarle la vita.
“Okay, togliamo questo utero marcio e cerchiamo di fermare l’emorragia
anche dalla sua vescica che continua a perdere”.
L’intervento e’ continuato in modo difficoltoso e un po’ scoordinato.
Era la prima volta che operavo un’isterectomia con Michele, e non e’
stato sempre facile, data la tensione del momento, capire chi doveva
fare cosa... e quando.
A volte ci si incrociava con le mani, o si urlava per avere dalla
povera strumentista lo stesso strumento nel medesimo istante. Io poi
avevo sempre uno sguardo sul monitor, perche’ un mio emisfero
cerebrale stava operando, mentre l’altro stava cercando di prevenire
che la malata morisse ‘di anestesia’.
Ma Dio ci ha messo del suo, e siamo riusciti a terminare l’operazione
con la malata ancora viva.
“Ora speriamo nel post-operatorio”, dicevo in modo preoccupato,
rivolgendomi non so neppure a chi.
Eravamo sudati come dei pulcini. Il nostro camicione era imbrattato di
sangue dal torace in giu’... “la malata e’ HIV negativa”, ho detto a
Michele, prevenendo una domanda che i suoi occhi ansiosi mi hanno
fatto immaginare.
Quello che continuava a ‘rugarmi’ nel cervello era il fatto che, prima
di addormentarsi, Gladys mi aveva confidato che era stata per giorni
in un’altra struttura dove non le avevano fatto nulla e dove l’avevano
poi dimessa assicurandola che non aveva nulla di grave.
Appena uscito dalla sala pero’ mi son trovato davanti gli occhi
imploranti di Daniela che mi ha sussurrato:
“Lo so che sei stanco, ma questa eco mi sembra urgente. E’ una donna a
termine di gravidanza. Non sento il battito fetale. Ha dolori
addominali lancinanti, ma non riesce a spingere. Dice di essere stata
in queste condizioni per molte ore. E’ arrivata con i mezzi pubblici,
dopo essere stata ricoverata in una maternita’ rurale assai lontano da
qui. Non riesce a camminare, sia perche’ ha un forte capogiro, sia
perche’ pare aver sviluppato una paralisi da travaglio prolungato”.
Mi sono comunque cambiato dalla testa ai piedi, e mi sono quindi
diretto in sala parto con l’ecografo portatile.
La “maledizione dei week end” continuava ad infierire: il feto era
morto e ballonzolava tra le anse intestinali.
La cavita’ addominale
era piena di liquido, e parte dell’utero era visibile dietro la testa
del feto, il quale si trovava immediatamente sotto-cute.
“Chiama Paolo per i gruppi.
Speriamo di trovare qualcosa di
compatibile da trasfondere... si rientra in sala appena sara’ pulita.
Stavolta e’ rottura d’utero. Speriamo che Dio ce la mandi buona anche
stavolta!”
Fr Beppe Gaido