domenica 27 gennaio 2013

Il fine settimana

Qualcuno potrebbe affermare che si tratta di “scarogna”; altri forse parlerebbero di strane congiunzioni astrali; qui da noi molta gente direbbe che si tratta di malocchio. 
Il fatto comunque rimane: i week end a Chaaria sembrano stregati. E’ come se tutte le complicazioni piu’ strane si dessero l’appuntamento per colpire proprio nel momento in cui siamo piu’ vulnerabili a causa della assenza del dott Ogembo e di Jesse. 
Anche lo scorso fine settimana e’ stato “secondo copione”. Tanti pazienti hanno affollato i nostri corridoi, al punto da farci domandare se non sia successo qualche cosa di collettivo nella mente della gente: forse tutti al giorno d’oggi pensano che, scegliendo di venire di sabato o di domenica, faranno meno coda e saranno serviti prima. 
Pero’ essi non considerano che, se inconsciamente questa diventa una decisione collettiva, i tempi di attesa non saranno certo inferiori che al lunedi’... anche considerando la riduzione dello staff in servizio. 


 
I cesarei del week end sono stati molti; ma questo non e’ piu’ realmente un problema per noi: ne abbiamo fatti cosi’ tanti, che ormai si tratta di una normale pratica quotidiana. Ma sabato pomeriggio il “malocchio” si e’ ripresentato puntualmente. 
Erano le ore 15 ed avevamo appena finito con l’ennesimo cesareo. Eravamo affamati e senza pranzo... e tutti pensavamo che forse ci saremmo potuti rilassare un po’ durante il pomeriggio. Invece e’ arrivata Gladys da Mukothima. Non si reggeva in piedi ed aveva un dolore addominale fortissimo. Sapeva di essere incinta da due mesi, e pensava di avere una minaccia d’aborto. Dopo una emoglobina misurata al volo, ci siamo resi conto che era molto anemica e che avremmo dovuto attivarci velocemente per un paio di trasfusioni urgenti. 
Meno male che c’era Paolo, il quale ci ha sostenuti puntualmente in laboratorio. Ringraziando Dio poi avevamo due sacche di sangue compatibile in frigo... se no saremmo stati fregati. Gladys infatti e’ giunta a noi da sola. 
L’ecografia e’ stata spietata. Il ‘fetino’ era morto... purtroppo non nell’utero, bensi’ in un groviglio di materiale strano a sinistra di esso. C’era fluido abbondante in cavita’ addominale. Ho praticato una aspirazione ecoguidata del liquido peritoneale, e, senza grossa sorpresa, ne ho ricavato sangue scuro. 
La diagnosi purtroppo era fatta, ma quel groviglio di materiale strano puzzava gravemente di “grane”. Siamo entrati in sala con il cuore in gola. La donna era instabile ed eravamo pienamente coscienti del fatto che ci sarebbero stati eguali rischi di perderla per problemi legati all’anestesia, come per difficolta’ nella gestione dell’intervento. 
Abbiamo aperto la pancia lentamente, incidendo prima la cuta, poi il giallo strato dell’esiguo tessuto grasso che la povera paziente ha potuto accumulare nella sua misera vita; quindi la fascia madreperlacea che le proteggeva i muscoli flaccidi. Divaricati questi ultimi ci siam trovati di fronte al foglietto peritoneale: non ci piaceva la sua apparenza. Aveva infatti perso il colore ocra, ed appariva di una cupa tonalita’ violacea. 
All’improvviso Michele si e’ lasciato scappare un commento che a tutti noi e’ parso comunque lapalissiano: “la paziente ha emoperitoneo!”. Abbiamo inciso con circospezione, ed immediatamente siamo stati sommersi da una cascata di coaguli e sangue fresco che il nostro aspiratore non riusciva a ‘succhiare’. Tiravamo fuori anche non le mani, ed il pavimento della sala ne e’ stato subito allagato. 
“Se non vediamo, non riusciremo mai ad operare”, continuava a ricordarmi il chirurgo. Poi finalmente le nostre cucchiaiate ed il nostro aspiratore hanno avuto la meglio. Ma quello che si e’ presentato al nostro sguardo pareva un campo di battaglia. 
Tutti gli organi erano appiccicati gli uni agli altri. L’utero era ormai ridotto ad una massa necrotica impossibile da salvare. Anche la vescica era in pessime condizioni, e sanguinava abbondantemente. Eravamo tesi ed un po’ scoordinati, perche’ non sapevamo “che pesce pigliare”... pian piano ci rendevamo conto che la gravidanza extrauterina doveva essere stata di tipo cronico. 
Probabilmente la malata aveva avuto male per molti giorni, ma non aveva avuto i soldi per andare all’ospedale. La patologia aveva quindi avuto il tempo di complicare con una grave infezione che gradualmente le aveva causato necrosi dell’utero. “Dobbiamo isterectomizzarla”, mi diceva ancora Michele. 
Io ho avuto un attimo di esitazione in quanto Gladys dormiva e non le avevo neppure chiesto se aveva dei figli oppure meno. Poi ho guardato la sacca di sangue (l’ultima a mia disposizione) che entrava goccia dopo goccia nelle sue vene, e l’aspiratore che ancora risucchiava materiale scarlatto dalla sua pancia. Lo sapevo che mi dovevo sostituire alla volonta’ di Gladys, se volevamo salvarle la vita. 
“Okay, togliamo questo utero marcio e cerchiamo di fermare l’emorragia anche dalla sua vescica che continua a perdere”. L’intervento e’ continuato in modo difficoltoso e un po’ scoordinato. 
Era la prima volta che operavo un’isterectomia con Michele, e non e’ stato sempre facile, data la tensione del momento, capire chi doveva fare cosa... e quando. A volte ci si incrociava con le mani, o si urlava per avere dalla povera strumentista lo stesso strumento nel medesimo istante. Io poi avevo sempre uno sguardo sul monitor, perche’ un mio emisfero cerebrale stava operando, mentre l’altro stava cercando di prevenire che la malata morisse ‘di anestesia’. 
Ma Dio ci ha messo del suo, e siamo riusciti a terminare l’operazione con la malata ancora viva. “Ora speriamo nel post-operatorio”, dicevo in modo preoccupato, rivolgendomi non so neppure a chi. 
Eravamo sudati come dei pulcini. Il nostro camicione era imbrattato di sangue dal torace in giu’... “la malata e’ HIV negativa”, ho detto a Michele, prevenendo una domanda che i suoi occhi ansiosi mi hanno fatto immaginare. Quello che continuava a ‘rugarmi’ nel cervello era il fatto che, prima di addormentarsi, Gladys mi aveva confidato che era stata per giorni in un’altra struttura dove non le avevano fatto nulla e dove l’avevano poi dimessa assicurandola che non aveva nulla di grave. 
Appena uscito dalla sala pero’ mi son trovato davanti gli occhi imploranti di Daniela che mi ha sussurrato: “Lo so che sei stanco, ma questa eco mi sembra urgente. E’ una donna a termine di gravidanza. Non sento il battito fetale. Ha dolori addominali lancinanti, ma non riesce a spingere. Dice di essere stata in queste condizioni per molte ore. E’ arrivata con i mezzi pubblici, dopo essere stata ricoverata in una maternita’ rurale assai lontano da qui. Non riesce a camminare, sia perche’ ha un forte capogiro, sia perche’ pare aver sviluppato una paralisi da travaglio prolungato”. 
Mi sono comunque cambiato dalla testa ai piedi, e mi sono quindi diretto in sala parto con l’ecografo portatile. La “maledizione dei week end” continuava ad infierire: il feto era morto e ballonzolava tra le anse intestinali. 
La cavita’ addominale era piena di liquido, e parte dell’utero era visibile dietro la testa del feto, il quale si trovava immediatamente sotto-cute. “Chiama Paolo per i gruppi. 
Speriamo di trovare qualcosa di compatibile da trasfondere... si rientra in sala appena sara’ pulita. 
Stavolta e’ rottura d’utero. Speriamo che Dio ce la mandi buona anche stavolta!” 

Fr Beppe Gaido 



Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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