martedì 5 marzo 2013

Lettera del volontario Dr. Giacomo Colella (medico pediatra)


Caro Beppe,
sono ormai rientrato nel grande meccanismo a orologeria che è la vita milanese, italiana, europea, scandita dai secondi e lontana anni luce dal "pole pole" africano. 
Gli impegni e il famoso stress cittadino stanno già annacquando la magia che mi sono portato dentro durante tutto il periodo passato a Chaaria. Per questo motivo sento il bisogno di leggere il blog ogni giorno e mantenere accesa la fiammella che mi ricorda i giorni passati con voi. Ho deciso di scrivere questa lettera, per ringraziare te, i Fratelli, il personale e i volontari che mi hanno accompagnato in questo momento chiave della mia vita.
È stata un'esperienza indimenticabile, iniziata con un po' di timore e terminata con lacrime di nostalgia ancor prima di partire.

 

Ricordo bene le tue parole quando, durante la mia prima visita cinque anni fa, mi dicesti che per un volontario le prime tre settimane erano di "ambientamento".
Ora posso dirti che avevi assolutamente ragione e sono contento di aver usato quel ricordo come criterio per scegliere il mio periodo di permanenza. Esattamente dopo tre settimane ho cominciato a ingranare, a sentirmi più utile e anche lo staff ha avuto il giusto tempo per conoscermi ed entrare un po' più in confidenza con me. Il risultato sono state altre quattro settimane di piena collaborazione con le infermiere e i clinical officer. 
Il ritorno a casa è stato brusco e non c'è giorno in cui non ripensi ai momenti trascorsi lì con voi. Mi manca tutto, gli amici, il clima, il cibo, le lezioni del giovedì. Ho una nostalgia pazzesca (è questo il "mal d'Africa"?).
Di certo mostrare di continuo le foto non mi aiuta a superare questa mancanza e quando gli amici mi chiedono di raccontare, spiego loro che ciò che rende speciale Chaaria è la passione di chi la vive e la rende viva, in Kenya e in Italia. Ogni anno che passa l'ospedale si ingrandisce, vengono acquistate nuove macchine, costruiti nuovi edifici, assunto nuovo personale. Nuovi volontari si interessano al progetto e molti non lo abbandonano dopo essere ritornati in Italia. Il Cottolengo Mission Hospital è una freccia che punta verso l'alto e questo grazie alla dedizione dei Fratelli, dello staff e dei volontari che di fatto "sono" Chaaria.
Durante le passate sette settimane sento di essere cresciuto tantissimo, spiritualmente e professionalmente. 
Mi rammarico solo di non aver potuto fare di più per aiutarvi, ma purtroppo la maledizione degli internisti è di essere totalmente dipendenti dalla comunicazione col paziente e quindi di necessitare quasi sempre di un interprete. Un bel corso di Swahili aiuterebbe (me lo segno per la prossima volta!).
Quindi non posso che ringraziarvi per avermi permesso di fare parte del vostro mondo, fatto di persone genuine, di sorrisi e saluti sinceri ogni mattina, di strette di mano con sconosciuti per strada, di lavoro interminabile, di soddisfazioni che ti danno le lacrime, di sconfitte che ti buttano sottoterra. Un mondo in ogni momento fatto di emozioni vere, delle quali sei in balia appena arrivi e in astinenza appena parti. Un grazie speciale a te, per la tua pazienza e per tutto quello che mi hai insegnato.
Ti lascio augurandoti di cuore che tu possa continuare questa missione con sempre maggior tenacia. Anche nei momenti di maggior sfiducia, di fronte al paziente più complicato, al terzo cesareo notturno, non dimenticarti mai che non sei solo, noi volontari anche se lontani ti pensiamo, siamo con te!
Per quanto mi riguarda, continuo per la mia strada e quando mi accorgo che il mio passo è quasi una corsa rallento e sussurro tra me e me: "Pole pole…"
con affetto, 

Giacomo








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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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