lunedì 1 aprile 2013

I disastri dell'aborto clandestino

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E’ Venerdi’ Santo e dall’ambulatorio mi presentano una ragazza con diagnosi di emorragia anteparto.

La visita mi indica un’eta’ gestazionale di circa 24 settimane. Faccio l’eco e mi accorgo che il feto purtroppo e’ morto, il liquido amniotico e’ completamente assente,  e tra il bimbo e la cervice c’e’ una massa che potrebbe sembrare una placenta previa di terzo grado.

La donna sanguina profusamente, e presenta inoltre una cicatrice da pregresso cesareo.

La situazione e’ critica e mi pone davanti ad una decisione estrema da prendere il piu’ presto possibile: la placenta previa e’ infatti una controindicazione al parto; il raschiamento non e’ proponibile perche’ l’eta’ gestazionale e’ troppo avanzata, ed il pregresso cesareo controindica l’uso dell’ossitocina.

Anche se a malincuore, il cesareo e’ l’unica opzione: se non interveniamo chirurgicamente infatti la nostra paziente potrebbe morire dissanguata.






Parliamo con la donna e le spieghiamo la situazione.

Putroppo dovra’ avere una seconda cicatrice uterina, pur non attendendosi un bambino vivo.

Con mia sorpresa, lei pero’ accetta senza esitazione.

Entriamo in sala e ci prepariamo all’operazione che, essendo praticata per un feto morto, si chiama uterotomia e non cesareo.

Appena aperto il peritoneo, troviamo moltissimo sangue in cavita’ e, con mia grande sorpresa, il feto fluttua tra le anse intestinali.

“Si tratta di rottura d’utero. Come e’ possibile che cio’ avvenga a 6 mesi di eta’ gestazionale?”

La mamma non e’ addormetnata ma sotto anestesia spinale, e quindi mi rivolgo a lei direttamente: “hai fatto qualcosa per abortire?”

Lei non tradisce emozioni e mi conferma di essersi rivolta ad una fattucchiera che ha inserito un bastoncino in vagina.

“Quella persona ti fa fatto del male. Durante quella pratica poco ortodossa deve aver puntato sulla cicatrice uterina, causando una breccia da cui poi il bambino e’ fuoriuscito ed e’ morto. Stai sanguinando tanto e l’utero e’ difficilissimo da riparare”.

Lei non risponde, non so se per paura o per senso di colpa.

Con una certa difficolta’  riesco pero’ a riparare l’organo, dopo aver estratto bimbo e placenta.

La mamma ora sta bene, ma le conseguenze del suo atto sono pesanti. Dovra’ cercare di non rimanere incinta per almeno due anni, e certamente due pregresse cicatrici sull’utero la esporranno ad elevati rischi di rottura, durante la prossima gravidanza e travaglio.



L’indomani e’ Sabato Santo, ma la gente afferisce normalmente al nostro ospedale.

Mi chiedono consulenza per una giovane donna che apparentemente ha una minaccia d’aborto. L’accolgo con partecipazione al suo problema, e raccolgo un po’ di storia clinica: mi dice che le contrazioni ed il sanguinamento sono iniziati improvvisamente ed apparentemente senza una causa precisa. Mi comunica di essere molto afflitta per i pericoli che la sua gravidanza sta correndo. Le chiedo la data dell’ultima mestruazione, da cui calcolo un’eta’ gestazionale di circa 12 settimane. L’ecografia pero’ smentisce la donna e dimostra un prodotto di concepimento di almeno 20 settimane: il battito cardiaco e’ presente anche se irregolare e lentissimo; purtroppo il liquido amniotico e’ quasi del tutto scomparso. Mi stringo nelle spalle e non sono sicuro di riuscire a salvare il bambino per cui questa mamma sta piangendo.

Visitando la donna, mi rendo conto che ha anche febbre alta. Il termometro conferma una temperatura di 39.

Mi accingo quindi ad una visita ginecologica per rendermi conto della dilatazione cervicale.

Con orrore e sorpresa grande, trovo il solito ramo di cassava inserito in cervice. Lo estraggo e lo faccio vedere alla mamma: “perche’ fai finta di piangere, quando tu stessa hai provocato questo aborto?”

La paziente non tenta di negare l’evidenza, ma non vuole spiegarmi le ragioni per cui l’ha fatto.

Siccome il battito cardiaco e’ presente e la malata ha febbre, decidiamo per una terapia conservatica: antibiotici per una possibile infezione puerperale, e farmaci tocolitici per bloccare le contrazioni e sperare che il feto si ripenda, permettendo alla gravidanza di arrivare a termine.

Con nostro disappunto pero’, nonostante le medicine, l’aborto avviene poche ore dopo. Il bimbo muore quasi subito dopo la nascita. La placenta e’ ritenuta, la malata sanguina profusamente ed ha febbre alle stelle.

Procediamo quindi a rimozione placentare mediante revisione della cavita’ uterina e pianifichiamo una trasfusione di sangue.



Naturalmente non condanno e non giudico nessuno, anche se in entrambi i casi mi sono sentito un po’ tradito dalle mie pazienti che non mi hanno detto la verita’. Rompere il patto di sincerita’ tra medico e paziente sempre espone quest’ultimo a gravissimi rischi.

Rimango inoltre convinto che uccidere un bimbo in utero e’ un peccato. Quando poi te lo vedi davanti completamente formato ed ancora capace di dare gli ultimi respiri, la concezione che sia stato ucciso e’ davvero evidente.

I due esempi che vi ho descritto danno poi anche un’idea di quanto pericoloso sia per le madri rivolgersi a delle fattucchiere che praticano aborti clandestini, senza la minima conoscenza dell’igiene e dell’anatomia. La donna puo’ andare incontro alla morte per anemizzazione, per setticemia o per rottura d’utero.

Infinite sono poi le complicazioni a lungo termine: quante donne mature sto ora seguendo per infertilita’, dopo che da giovani si sono sottoposte a pratiche abortive che hanno causato infezioni genitali e blocco delle tube. Quando erano giovani non ci pensavano, e per loro contava solo liberarsi della gravidanza non voluta; ora che sono donne sposate piangono lacrime amare perche’ non riescono a dare un figlio al marito.

Papa Francesco ci dice che Dio non si stanca mai di perdonare, e di questo sono profondamente convinto; ma sempre mi ritornano in mente le parole di un mio amico, morto di AIDS tanti anni fa dopo “una caduta” con una prostituta: “ricordati, Beppe, che Dio perdona sempre, ma la Natura non sempre lo fa!”



Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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