domenica 17 agosto 2014

Il calabrone non lo sa (e noi neppure)


Una volta lessi, probabilmente su un giornale poco scientifico, che accurati e approfonditi calcoli e studi avevano decretato che il calabrone, per la forma, la stazza e la scarsa portanza delle ali, non poteva volare. Fortunatamente per loro i calabroni non hanno studiato, non lo sanno e continuano a volare.
Mi è tornata alla mente questa storiella perché in questi giorni, a Chaaria, è stata fatta la disinfestazione.
Chi è stato qui sa che i sottotetti erano pieni di calabroni che ti accoglievano al mattino con un rumoroso e sinistro ronzio danzando in due o tre al di la della reticella metallica delle finestre; li ritrovavi poi scendendo in ospedale, passando sotto la spiovenza dei tetti dei buoni figli, sempre sospesi a mezz'aria, inquietanti ma indifferenti al tuo passaggio.
Già in passato mi avevano spiegato che fanno i nidi facendo grossi buchi nelle travi del tetto minandone la robustezza.


 
Ora giacciono a terra ovunque, morti.
Conoscendo la forza della natura non so se questa sarà una vittoria definitiva, ma mi mette in fondo un po' di tristezza....qualcosa è cambiato.
Per associazione di idee ho pensato ai piccoli cambiamenti che vedo ogni anno e penso: magari un giorno le due poderose cucine economiche accese dall'alba al tramonto (economiche x chi ha legna e braccia a disposizione) verranno sostituite da più funzionali e puliti apparecchi a gas, magari un giorno miglioreranno le strade, l'asfalto arriverà fin qui e non ci vorranno più 5 ore e mezza per fare meno di 300 Km da Nairobi a qui, magari in ospedale ci saranno camere a 6 letti con bagno (è già una fantasia arditissima), magari la gente sarà meno povera, magari ...., magari.......
Sono tutt'altro che contrario al progresso, non so se è quando i magari si avvereranno e probabilmente non riuscirò, per raggiunti limiti di età , a vedere nulla di tutto ciò.........ma mi domando: saremo più felici?

Pietro

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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