mercoledì 20 agosto 2014

L'outpatient

L'outpatient è, per dare un'idea, l'equivalente del paziente ambulatoriale nostrano, che raggiunge l'ospedale a piedi, in bicicletta, ma soprattutto con il MATATU, che è una specie di pulmino con un numero variabile di posti e un numero soverchiante di occupanti.
Il nostro paziente medio non è ricco per cui nessuno arriva in moto e tantomeno in auto.
Qualche urgenza capita che arrivi in moto taxi (piki piki).
Gli appassionati del blog avranno visto qualche foto di queste moto improbabili che viaggiano su queste strade ancora meno probabili (che definire sterrate è un eccesso di ottimismo), con 4-5 persone a bordo.
Orbene capita che qualche Donna (la donna africana esige la maiuscola) in travaglio di parto o con qualche altra urgenza ostetrico ginecologica (molto frequenti) arrivi con questo mezzo strombazzante e con radio a tutto volume (se non hai la radio sulla moto non sei nessuno), accompagnata, oltre che dal conducente (l'unico col casco) da un numero variabile di parenti secondo la stazza degli stessi.
Ma torniamo agli outpatients, a differenza dei nostri ambulatoriali, essi non arrivano su prenotazione, in giorni e ore stabiliti, bensì arrivano come una marea montante diurna (di notte non si viaggia) col picco massimo in tarda mattina.





Queste centinaia (sic!) di persone che arrivano quotidianamente vengono "filtrate" dai clinical officers (una via di mezzo tra medico e infermiere) che dirottano i casi che non sanno o non possono risolvere allo specialista competente.
In assenza di volontari qualificati, e cioè per la maggior parte dell'anno, lo specialista competente è Brother Beppe che si destreggia fra routine, ecografie, endoscopie, cesarei urgenti, diabeti scompensati, edemi polmonari acuti, accoltellati, incidenti stradali (scontro fra due moto: 9 feriti) e chiedo scusa alle patologie non elencate.
Le cure dentarie spettano al dentista, normalmente presente nei giorni feriali, ma quando non c'è perché è festa o è ammalato......
Ogni sera si rinnova il miracolo: tutti hanno avuto ascolto e tutti sono stati curati o ricoverati e la sala d'attesa è vuota.
Io sono un chirurgo generale nel più ampio senso del termine, opero un po' di tutto, aiuto Br. Beppe in sala operatoria ed è quindi li che si svolge prevalentemente la mia giornata (a Chaaria si opera mattina e pomeriggio dal Lunedì al Sabato, la Domenica di solito solo le urgenze) e non mi pesa.
E fin qui tutto bene, ma, fra un intervento e l'altro, incombono gli outpatients. Premetto che mi ritengo molto fortunato perché a me arrivano casi relativamente semplici e generalmente risolvibili con la guarigione del paziente.


Compiango invece con sincera solidarietà i Colleghi internisti che, oltre alle grandi disgrazie senza vie d'uscita, si trovano a dover fronteggiare mal di testa, mal di schiena, debolezza, febbricola, nausea, capogiri, dolori alle gambe, spesso coesistenti nella stessa persona.
Tornando alla mia esperienza personale, tra un interventi e l'altro, più o meno programmato, mi avvicino con timore e preoccupazione ad una mensolina, adiacente allo studio del capo dove in questo momento ci sono tre cartellette: una, sempre piena, di Br. Beppe, una della dental room e una con scritto surgeon.
Nelle cartellette ci sono dei fogli (files) che contengono una stringata anamnesi, un succinto esame obiettivo e sostanzialmente la richiesta di visita e della gestione del caso.
Ora confesso che, dopo tanti soggiorni a Chaaria, fra la mia scarsa conoscenza della lingua inglese, la calligrafia pessima e le maledette abbreviazioni di stile anglosassone (cito solo la PUO che è la febbre di origine ignota, la PID che è l'infiammazione pelvica e la PUD che è
invece la malattia ulcerosa), li guardo sempre con odio misto a depressione perchè mi piacerebbe tanto capirci qualcosa senza dover rompere le scatole al solito Beppe.
Raccattati i files devo trovare un interprete che cerchi i pazienti (sembra facile) e mi aiuti a visitarli. Finalmente entra il primo, non risponde al saluto, non mi guarda e si siede. All'inizio ci restavo male, poi mi son spiegato che è una forma estrema di riservatezza, forse timore e perfino rispetto... è non ci faccio più caso.
Poi, nonostante i miei gesti e le istruzioni in madre lingua dell'interprete, lo svestimento, l'ascesa al lettino e l'assunzione della posa opportuna secondo il tipo di visita, sono sempre
piuttosto indaginose e prolisse. I pazienti che mi indirizzano sono abbastanza selezionati, quasi tutti da operare, per cui, confermata la diagnosi, propongo ricovero e intervento e penso di poter passare al prossimo e invece parte un serrato confronto verbale tra paziente e interprete, scandito da prolungati "eeh" di reciproca comprensione. Il tutto con paziente rigorosamente incollato al lettino, che non accenna minimamente a rivestirsi. Alla fine dello scambio di idee e salvo consulenza telefonica co i familiari rimasti a casa (tutti hanno il cellulare, vecchio, scassato, ma c'è l'hanno) vengo finalmente messo al corrente della decisione, che non sempre è di accettazione del ricovero...non so cosa sperasse dalla visita.
A questo punto il paziente si riveste ed esce, sempre con la stessa non espressione qualunque sentenza gli abbia appioppata....è può entrare il prossimo.
Tutto ciò mentre "friggo" di impazienza perchè non so a che punto sono in sala oppure, più volgarmente perché sono le due e mezza e ti piacerebbe riuscire a mangiare.
Sembra una scemata, ma quando lo stillicidio dura tutto il giorno..
In ogni caso, finito di vedere quei tre o quattro, torni alla mensolina per vedere se è arrivato qualcun altro e allora, parafrasando Charlie Brown (o era Snoopy?)....felicità è una cartella vuota.

Dr Pietro Rolandi





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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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