giovedì 15 gennaio 2015

Diario del Kenya

Non so quando ho iniziato a fantasticare sull’Africa. Due miei cugini ci sono stati, ed uno tuttora ci va spesso per lavoro ma no, non credo che il mio desiderio sia partito da loro. Forse un documentario in televisione, una lettura, chissà.
Fatto sta che, anche prima di laurearmi, mi ritrovavo spesso a navigare su Internet per cercare associazioni di volontariato con le quali poter partire; passavo ore tra un sito e l’altro, a leggere esperienze di chi già c’era stato, come si era trovato, a guardare foto di incantevoli paesaggi. Tutto ciò fino a quando la mia collega e amica Serena, anche lei col medesimo sogno, mi ha fatto conoscere l’associazione Karibu Africa Onlus, il gruppo di volontari sardi derivato dall’associazione Cottolengo di Torino. Io e Serena abbiamo superato un colloquio e partecipato ai loro incontri per capire meglio di cosa si trattasse. Sempre più convinte, abbiamo iniziato il lungo iter di vaccinazioni-passaporto-ricerca di informazioni-acquisto di materiale vario.
La paura c’era, e tanta. La lontananza dalla famiglia, dall’ambiente in cui vivo, dalle mie abitudini. I tantissimi chilometri che ci avrebbero diviso. Il lavoro, sicuramente diverso. La stanchezza fisica e mentale di lavorare gran parte del giorno. E poi le malattie, le infezioni, l’igiene, il parlare una lingua diversa…insomma, una marea di pensieri! Senza quasi rendermene conto, mi sono trovata quasi trascinata alla data di partenza.
Il viaggio è stato lunghissimo, ma da là è iniziata la mia grande avventura.


Ho notato subito che l’aria era più fresca e più pulita, donando una sensazione di grande libertà. L’appartamento a noi destinato era spazioso e ben attrezzato, piacevole e sereno. L’orario di lavoro era dalle 8 alle 13, dalle 14:30-15 alle 18 (che poi diventavano spesso 19 o 20, a seconda delle esigenze). Se non c’era più nulla da fare ci trattenevamo comunque in pediatria, per leggere una storia o disegnare e giocare con i bimbi.
La mattina era così suddivisa: visita alle gravide, alle puerpere ed ai neonati, tutto nel rispetto della natura, senza medicalizzazione o interventi inutili. Il pomeriggio era invece dedicato alla medicazione delle ferite dei bambini e al posizionamento di cannule. L’assistenza al parto ovviamente non seguiva orari. Nei momenti vuoti ci occupavamo della documentazione, del rifornimento di farmaci e della sistemazione delle sala parto (preparazione dei kit parto, ecc.) oppure andavamo nel consultorio, dove si svolgevano i controlli periodici alle gestanti e le vaccinazioni dei più piccoli. La sala operatoria era definita “il tempio della pulizia”…ed era un nome azzeccatissimo! Ordinata, con delle regole ben precise e rispettatissime per evitare sporcizia dall’esterno, ben attrezzata ed utilizzata. Il lavoro si svolgeva durante tutta la giornata (il chirurgo arriva a fare anche 6-7 interventi al giorno!), evitando sprechi di ogni genere e nelle regole dell’asepsi e sterilità.
Di tanto in tanto mi stupivo del loro ingegno, perché essendo abituati ad avere poco e nulla, il poco che hanno lo sfruttano al meglio che possono e nella maniera più economica possibile!
In generale posso dire che l’esperienza mi ha portato a tante riflessioni sul mondo occidentale, sia sul modo di lavorare che sul modo di vivere la vita.
Innanzitutto: è necessario indurre il parto in caso di gravidanza post-termine, se sia mamma che bimbo stanno bene? Non è forse meglio aspettare che la natura faccia il suo corso? E’ indispensabile monitorare continuamente l’avanzamento del travaglio, come battito cardiaco e dilatazione cervicale? Possono madre e figlio sentirsi liberi di incontrarsi se l’ambiente che li circonda non li fa sentire a proprio agio(rumori, voci, urla, gente sconosciuta, tracciato e flebo sempre attaccati)? Perché l’allattamento al seno viene ormai considerato un lusso e non la normalità? Perché in Africa solo pochissime donne pensavano di “non avere latte”? Perché se vediamo una mamma in difficoltà, anziché aiutarla, la definiamo subito “una cattiva madre”?
E poi: perché siamo sempre nervosi, arrabbiati, scocciati, infastiditi? Non ci manca nulla! Perché non sappiamo godere delle piccole cose ed essere felici ogni giorno? Perché i nostri bambini non sanno più ringraziare o scusarsi? Perché non si divertono anche se hanno i giochi più belli del mondo? Perché non li lasciamo più liberi di sporcarsi/fare baccano/correre?

Osterica, Gaia











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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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