Ho sempre creduto che la
professione medica sia soprattutto una chiamata, una vocazione.
Questa e’ una delle ragioni
per cui ho scelto la vita religiosa prima ancora della professione medica.
Penso che il medico sia prima
di tutto chiamato a lottare sempre per la vita. Questo e’ il concetto base del
giuramento di Ippocrate, ma credo importante che ce lo ripetiamo
quotidianamente per non dimenticarcelo.
Lottare per la vita e’ la
nostra priorita’, e la nostra caratteristica principale come medici.
E’ vero che tante volte il
nostro servizio alla salute ed alla vita incontra invece la morte, ed e’
altrettanto vero che talvolta la morte e’ piu’ potente di tutti i nostri
sforzi; cionondimeno il nostro impegno e’ sempre quello di salvare, di far star
meglio, di guarire.
Quante volte, anche
recentemente, i miei sforzi hanno avuto come esito la morte del malato!
Quello che conta, e cio’ che
rende il mio operato etico, e’ comunque il fatto che il mio tentativo e’ sempre
stato quello di salvare la vita. Anche recentemente una lunga operazione fatta
per salvare una persona accoltellata all’addome e’ risultata nella morte
dell’operato poche ore dopo essere uscito dalla sala. Ma cio’ che mi rende
moralmente tranquillo e’ il fatto che nell’intervento noi abbiamo tentato il
tutto e per tutto per salvare quel paziente.
Quell’uomo e’ morto infatti
per le pugnalate del facinoroso, e non a motivo dell’operazione fatta da noi.
Nella mia concezione etica,
considerato il fatto che il malato non aveva soldi e non avrebbe potuto
rivolgersi ad un altro ospedale, sarebbe stato immorale non fare nulla e
lasciare che l’emorragia interna lo uccidesse senza un disperato tentativo di
salvarlo. Sarebbe stato sbagliato astenersi per paura che qualcosa potesse
andar male, semplicemente per coprirsi le spalle.
“Primum non nocere” dice
ancora Ippocrate (460-335 a.C.). Anche questo e’ un principio ispiratore
importantissimo per me. Se da una parte devo fare di tutto per salvare e
conservare la vita del malato, dall’altra devo evitare azioni temerarie che
possano inutilmente mettere a repentaglio la vita di qualcuno.
Devo fare le
cose che son capace di fare con perizia, e non cedere alla tentazione
dell’imprudenza. Questo vale per esempio anche per interventi rischiosi e
inutili su pazienti terminali, sui quali l’azione medica non ha alcun
significato in termini di sopravvivenza e di qualita’ di vita.
Da questo punto di vista la
medicina palliativa e’ una scelta piu’ etica rispetto ad un intervento gia’
ritenuto inutile ancor prima di iniziarlo. Il medico che serve infatti non fa
mai alcunche’ per pura accademia, perche’ lo scopo della sua vita non e’ la
scienza, ne’ tantomeno il “farsi vedere”, ma il malato che ha davanti.
Ben Carson, un neurochirurgo
pediatrico americano di fama mondiale, dice comunque che la medicina è anche
“capacità di affrontare il rischio”.
Lui sostiene che il rischio è insito nel
concetto stesso di medicina e che non agire per paura di correre dei pericoli
può diventare immorale e togliere a molti la possibilità di guarire: a qualcuno
che gli chiedeva chi glielo facesse fare di separare gemelli siamesi con
possibilità di successo non molto incoraggianti, lui rispose: “perchè
rischiare? La domanda è scorretta ed io penso che sarebbe meglio chiedere
perchè non rischiare se ci sono anche solo magre possibilità di successo!”.
Secondo me, la medicina implica una continua lotta contro se stessi e la
ricerca infinita di un equilibrio tra ciò che potrebbe essere temerario e ciò
che invece potrebbe essere eccesso di prudenza e paura. A me è successo tanto
di veder morire un malato 24 ore dopo aver deciso di astenermi da un intervento
che ritenevo troppo rischioso, quanto di assistere ad un operato che non si è
più svegliato dall’anestesia generale; ogni volta è un tormento: nel primo caso
ti flagelli e ripeti a te stesso: “se lo avessi operato!”, mentre nel secondo
mugugni pieno di sensi di colpa: “era meglio se non lo toccavo!”.
A Chaaria poi
questo tormento interiore è certamente reso più grave dal fatto di essere soli
e di non avere quasi mai una persona più anziana e più esperta a cui chiedere
consiglio: ci sono io con la mia coscienza, e normalmente le decisioni vanno
prese molto in fretta.
Inoltre io penso al medico
come ad un servitore dell’umanita’, e quindi penso alla sua vita come
completamente donata, ventiquattr’ore al giorno. Ecco quindi che la dedizione
ed il sacrificio sono certamente parte integrante del mio ideale di medicina.
Lo so che ci sono i limiti umani, la stanchezza ed anche la possibilità di
burn-out psicologico, ma nei limiti del possibile il medico è sempre a
disposizione di chi soffre. La mia fede mi aiuta molto in questo perchè io
credo profondamente che nella persona del malato io servo Gesù.
La mia
impressione e’ che la dedizione contenga in se’ una forza rigenerante. E’ un
mistero, ma quando tieni fisso lo sguardo sul tuo fine (che è il servizio
incondizionato ai malati, per quanto le tue forze te lo consentono), la tua
donazione non drena le tue energie completamente. T
i svuota di forza fisica e
mentale, ma ti riempie il cuore. Ed e’ proprio perche’ sei interiormente
carico, che ti basta una doccia o poche ore di sonno per sentirti nuovamente
pronto a ricominciare.
La dedizione e’ in se’ un’energia che ti trovi dentro e
non sai da dove venga: credo comunque che derivi dal fatto che sei contento di
te stesso e ti senti in qualche modo appagato, realizzato e soddisfatto. Mi
pare che il fulcro sia proprio qui: la donazione ti gratifica perche’ e’
decisamente per questo che sei venuto in Africa.
A volte non ci si butta per
paura di fallire, per eccessivo timore dei propri limiti, per preoccupazioni
esagerate sul futuro (e poi chi portera’ avanti questo mio progetto dopo di
me!). Ma questa e’ una trappola! Meno si fa, meno si e’ impegnati e piu’ si
tende a cadere nella malinconia, nella nostalgia dell’Italia ed a volte anche
nella maldicenza gratuita e cattiva.
Passo ora ad un aspetto forse
controverso e spero di essere ben compreso a questo riguardo: mi riferisco
all’aspetto economico e remunerativo dell’attivita’ medica.
Capisco che la mia condizione
di religioso di per se’ mi pone in una situazione anomala perche’ e’ chiaro che
io lavoro gratuitamente, ma e’ altrettanto vero che la Congregazione si prende
cura di tutti i miei bisogni e delle mie necessita’ economiche.
Un medico onesto e buono e’
chiaro che abbia bisogno del suo onorario e di una giusta remunerazione.
Quello che pero’ a volte mi
sconvolge e’ la totale trasformazione della professione medica in business. La
cosa mi turba molto di piu’ nei Paesi in Via di Sviluppo, dove molta gente e’
povera e dove per lo piu’ la sanita’ e’ a pagamento.
Ho visto gente lasciata fuori
dal cancello degli ospedale perche’ non aveva soldi; sono testimone oculare di
gravissime ferite da panga non suturate per la stessa ragione. So di casi in
cui un intervento chirurgico viene eseguito solo in strutture private ed a
prezzi esorbitanti, tagliando di fatto fuori molti clienti meno abbienti. Sono
testimone oculare di malati lasciati letteralmente a “marcire” in certi reparti
perchè non avevano la possibilità di pagare la parcella privata del chirurgo.
Non so dove sia il giusto
mezzo da questo punto di vista, ne’ voglio esprimere dei giudizi verso gli
altri.
Ritengo comunque immorale
lasciar morire una persona semplicemente perche’ non ha i soldi per pagarsi le
cure; lo stesso dicasi per il rifiuto di un intervento che potrebbe impedire a
quel malato di essere handicappato per la vita...
Personalmente mi ritengo
fortunato di essere nella posizione di poter lavorare senza uno stipendo,
perche’ questo mi autorizza anche ad accogliere quelli che comunque non mi
potranno pagare.
Altrettanto sbagliata e’
secondo me la competizione feroce e sleale tra colleghi. Ippocrate insiste
molto sulla solidarieta tra i membri della famiglia medica: quando pero’ il
fine dell’operato del medico non e’ il paziente ma i soldi, e’ chiaro che il
collega non e’ un tuo familiare, ma un tuo competitore che ti porta via clienti
e potenziali fonti di reddito.
Allora, se riesci a mettere in giro false accuse
di incompetenza nei confronti dei tuoi colleghi, magari speri di poter avere piu’
cienti e piu’ soldi... ma questa e’ una realta’ che aborrisco con tutte le
forze.
I medici dovrebbero collaborare, consultarsi, aiutarsi, darsi dei
consigli terapeutici, difendersi vicendevolmente, non parlare male gli uni
degli altri...anche perchè tutti sbaglioano e nessuno è perfetto.
E’ chiaro comunque che il
giuramento di Ippocrate e’ ancora un’utopia.
Altra cosa che aborrisco nel
medico e’ la presunzione.
Il medico deve essere in
ospedale come il capofamiglia: deve essere “primus inter pares”; con umilta’
deve stabilire delle linee guida e dei protocolli, in modo da rendere autonomi
gli infermieri ed i clinical officers. Deve corregere con paterno affetto e non
con tracotanza e superiorita’. Deve instaurare rapporti positivi con il resto
del personale, in modo che tutti facciano quello che dice, non per paura, ma
per fargli piacere.
Un medico presuntuoso e traconante forse otterra’ delle
cose mentre lui e’ presente, ma, se gira l’angolo, tutti se ne fregheranno di
quello che lui vuole e faranno il contrario. Se invece il dottore sa farsi
rispettare con l’affetto, allora tutti vorranno seguire i suoi insegnamenti,
per rispetto e per non farlo star male.
Certo il medico deve essere
anche il formatore del gruppo. Deve studiare lui stesso continuamente per poter
trasmettere allo staff conoscenze sempre aggiornate che possano garantire il
piu’ alto standard possibile di servizio in ospedale.
Credo che il medico debba
essere anche il trascinatore ed il modello per tutto il personale, e credo che
questo lo debba fare soprattutto con l’esempio: il medico deve essere presente
al letto dei malati, deve spendersi, deve donarsi, ed allora il suo esempio
sara’ seguito da tutto. Le parole non trascinano... l’esempio della vita si’.
Il grande nemico del medico è comunque
sempre la morte. Egli si confronta quotidianamente con essa e non può far finta
che non esista.
Un Professore di Medicina Tropicale di Anversa
diceva, forse un po’ cinicamente, che per imparare bisogna sempre passare sopra
qualche cadavere. Questa affermazione sembra terribile, ma quanto mai
veritiera. Una persona si forma soprattutto attraverso brucianti errori, che
rimangono così impressi nella mente da non essere più ripetuti.
Purtroppo in Medicina gli sbagli non si riparano
facilmente, e a volte conducono addirittura alla morte.
Veder morire una persona per
cui ti sei impegnato tantissimo e’ sempre una sconfitta gravissima per un
medico. Se poi questo malato era giovane e lascia dietro di se’ una piccola
creatura orfana ed un consorte affranto, il senso di fallimento diventa
doloroso e frammischiato a innumerevoli sensi di colpa: “ho fatto veramente
tutto quello che potevo? Dove ho possibilmente sbagliato?”
A questo si aggiunge
l’angoscia di dover affrontare i parenti: la paura di non saper far fronte alle
loro emozioni; il timore che, in un momento di rabbia, ti accusino anche di
cose che non hai fatto.
La profonda depressione che
segue la morte di un malato affidato alle tue cure non e’ un segno di “delirio
di onnipotenza”: lo sappiamo tutti che in medicina ci sono battaglie perse in
partenza, ed altre che hanno alte percentuali di sconfitta.
Ci rendiamo conto
che ogni procedura da noi eseguita ha delle percentuali di mortalita’ che sono
ormai conosciute in tutto il mondo e documentate in letteratura. Ma quando quel
“per cento” riguarda te e la persona per la cui sopravvivenza stavi lottando,
le cose cambiano. Il mondo sembra crollarti addosso.
A volte fa capolino la
tentazione di bloccarsi: “non faro’ mai piu’ quella cosa”. Il tuo cuore lo sa che
si tratta di una reazione psicologica infondata e pericolosa... dentro di te
senti che sarebbe uno sbaglio buttare nel cestino la patente dopo un incidente
stradale... ma la tentazione e’ forte.
Bisogna davvero metterci molta
forza di volonta’, per fare una analisi oggettiva di tutto il piano terapeutico
ed eventualmente correggere delle possibili lacune nei protocolli
dell’ospedale... ma soprattutto occorre farsi forza e continuare a lavorare,
perche’ ritirarsi nelle fobie, priverebbe molti altri malati di servizi
necessari alla loro sopravvivenza.
Quando poi tutto capita alle 3
di notte, e’ chiaro che non ci sarà verso di prendere sonno nuovamente, ed il
letto diventera’ come una prigione.
Vorrei concludere questa mia
piccola riflessione su ciò che tento di essere e sull’ideale di medico che ho
in testa, parlandovi anche di un aspetto propriamente mio, un aspetto legato al
fatto di essere allo stesso tempo un medico ed anche un religioso: e cioè la
continua dicotomia tra l’azione e la contemplazione, tra il servire ed il
pregare.
Quest’anno per esempio, per motivi di emergenze varie, non sono
riuscito a partecipare ad alcuna delle funzioni liturgiche del triduo pasquale,
tanto importanti nella vita cristiana.
Ho condiviso la mia frustrazione
interiore con qualcuno: una persona mi ha risposto: “essere religioso ed essere
medico, almeno a Chaaria, sembrano due cose incompatibili”; un altro invece mi
ha detto con sicurezza: “la tua preghiera era qui ad aiutare chi sarebbe morto
senza il tuo intervento”.
Ripenso spesso a come sono le
mie ore di preghiera in comunità.
E’ cosi’ frequente per me non
riuscire a partecipare alla preghiera comunitaria o essere gravemente in
ritardo che e’ ormai un luogo comune affermare che io a pregare non ci sono
mai.
Onestamente lo sforzo ce lo metto davvero, ma spesso le circostanze mi
impediscono di tradurre in fatti i miei desideri.
Anche qui però pian piano sto
arrivando alla mia piccola sintesi interiore.
Per me oggi la dedizione a chi
ha bisogno, la scelta preferenziale per i poveri che hanno il diritto di
chiedermi un servizio fino al sacrificio della salute e della vita, sono la mia
strada maestra per andare a Dio.
Certo, pregare è importante, e quando posso
sento il bisogno di stare con Dio, ma non mi sento di fare lunghe preghiere:
ora preferisco il silenzio.
Preferisco far vedere la mia fede ed il mio amore
al Signore attraverso le opere, soprattutto attraverso il servizio dei malati.
Dedizione totale a chi soffre,
finche’ le forze me lo concedono; silenzio ed abbandono al Signore ogni volta
che in Lui mi posso rifugiare … queste mi sembrano le stelle polari che guidano
oggi i miei giorni.
Sento che Gesu’ mi accetta cosi’ come sono, perche’ Lui non
guarda all’apparenza ma al cuore, e conosce l’impegno quotidiano che ho nel profondo
sia come medico che come religioso.
Fr Beppe
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