domenica 12 aprile 2015

Il mio ideale di medico

Ho sempre creduto che la professione medica sia soprattutto una chiamata, una vocazione.
Questa e’ una delle ragioni per cui ho scelto la vita religiosa prima ancora della professione medica.
Penso che il medico sia prima di tutto chiamato a lottare sempre per la vita. Questo e’ il concetto base del giuramento di Ippocrate, ma credo importante che ce lo ripetiamo quotidianamente per non dimenticarcelo.
Lottare per la vita e’ la nostra priorita’, e la nostra caratteristica principale come medici.
E’ vero che tante volte il nostro servizio alla salute ed alla vita incontra invece la morte, ed e’ altrettanto vero che talvolta la morte e’ piu’ potente di tutti i nostri sforzi; cionondimeno il nostro impegno e’ sempre quello di salvare, di far star meglio, di guarire.
Quante volte, anche recentemente, i miei sforzi hanno avuto come esito la morte del malato!
Quello che conta, e cio’ che rende il mio operato etico, e’ comunque il fatto che il mio tentativo e’ sempre stato quello di salvare la vita. Anche recentemente una lunga operazione fatta per salvare una persona accoltellata all’addome e’ risultata nella morte dell’operato poche ore dopo essere uscito dalla sala. Ma cio’ che mi rende moralmente tranquillo e’ il fatto che nell’intervento noi abbiamo tentato il tutto e per tutto per salvare quel paziente.



Quell’uomo e’ morto infatti per le pugnalate del facinoroso, e non a motivo dell’operazione fatta da noi.
Nella mia concezione etica, considerato il fatto che il malato non aveva soldi e non avrebbe potuto rivolgersi ad un altro ospedale, sarebbe stato immorale non fare nulla e lasciare che l’emorragia interna lo uccidesse senza un disperato tentativo di salvarlo. Sarebbe stato sbagliato astenersi per paura che qualcosa potesse andar male, semplicemente per coprirsi le spalle.
“Primum non nocere” dice ancora Ippocrate (460-335 a.C.). Anche questo e’ un principio ispiratore importantissimo per me. Se da una parte devo fare di tutto per salvare e conservare la vita del malato, dall’altra devo evitare azioni temerarie che possano inutilmente mettere a repentaglio la vita di qualcuno. 
Devo fare le cose che son capace di fare con perizia, e non cedere alla tentazione dell’imprudenza. Questo vale per esempio anche per interventi rischiosi e inutili su pazienti terminali, sui quali l’azione medica non ha alcun significato in termini di sopravvivenza e di qualita’ di vita.
Da questo punto di vista la medicina palliativa e’ una scelta piu’ etica rispetto ad un intervento gia’ ritenuto inutile ancor prima di iniziarlo. Il medico che serve infatti non fa mai alcunche’ per pura accademia, perche’ lo scopo della sua vita non e’ la scienza, ne’ tantomeno il “farsi vedere”, ma il malato che ha davanti.
Ben Carson, un neurochirurgo pediatrico americano di fama mondiale, dice comunque che la medicina è anche “capacità di affrontare il rischio”. 
Lui sostiene che il rischio è insito nel concetto stesso di medicina e che non agire per paura di correre dei pericoli può diventare immorale e togliere a molti la possibilità di guarire: a qualcuno che gli chiedeva chi glielo facesse fare di separare gemelli siamesi con possibilità di successo non molto incoraggianti, lui rispose: “perchè rischiare? La domanda è scorretta ed io penso che sarebbe meglio chiedere perchè non rischiare se ci sono anche solo magre possibilità di successo!”. 
Secondo me, la medicina implica una continua lotta contro se stessi e la ricerca infinita di un equilibrio tra ciò che potrebbe essere temerario e ciò che invece potrebbe essere eccesso di prudenza e paura. A me è successo tanto di veder morire un malato 24 ore dopo aver deciso di astenermi da un intervento che ritenevo troppo rischioso, quanto di assistere ad un operato che non si è più svegliato dall’anestesia generale; ogni volta è un tormento: nel primo caso ti flagelli e ripeti a te stesso: “se lo avessi operato!”, mentre nel secondo mugugni pieno di sensi di colpa: “era meglio se non lo toccavo!”. 
A Chaaria poi questo tormento interiore è certamente reso più grave dal fatto di essere soli e di non avere quasi mai una persona più anziana e più esperta a cui chiedere consiglio: ci sono io con la mia coscienza, e normalmente le decisioni vanno prese molto in fretta. 
Inoltre io penso al medico come ad un servitore dell’umanita’, e quindi penso alla sua vita come completamente donata, ventiquattr’ore al giorno. Ecco quindi che la dedizione ed il sacrificio sono certamente parte integrante del mio ideale di medicina. 
Lo so che ci sono i limiti umani, la stanchezza ed anche la possibilità di burn-out psicologico, ma nei limiti del possibile il medico è sempre a disposizione di chi soffre. La mia fede mi aiuta molto in questo perchè io credo profondamente che nella persona del malato io servo Gesù. 
La mia impressione e’ che la dedizione contenga in se’ una forza rigenerante. E’ un mistero, ma quando tieni fisso lo sguardo sul tuo fine (che è il servizio incondizionato ai malati, per quanto le tue forze te lo consentono), la tua donazione non drena le tue energie completamente. T
i svuota di forza fisica e mentale, ma ti riempie il cuore. Ed e’ proprio perche’ sei interiormente carico, che ti basta una doccia o poche ore di sonno per sentirti nuovamente pronto a ricominciare. 
La dedizione e’ in se’ un’energia che ti trovi dentro e non sai da dove venga: credo comunque che derivi dal fatto che sei contento di te stesso e ti senti in qualche modo appagato, realizzato e soddisfatto. Mi pare che il fulcro sia proprio qui: la donazione ti gratifica perche’ e’ decisamente per questo che sei venuto in Africa. 
A volte non ci si butta per paura di fallire, per eccessivo timore dei propri limiti, per preoccupazioni esagerate sul futuro (e poi chi portera’ avanti questo mio progetto dopo di me!). Ma questa e’ una trappola! Meno si fa, meno si e’ impegnati e piu’ si tende a cadere nella malinconia, nella nostalgia dell’Italia ed a volte anche nella maldicenza gratuita e cattiva.
Passo ora ad un aspetto forse controverso e spero di essere ben compreso a questo riguardo: mi riferisco all’aspetto economico e remunerativo dell’attivita’ medica.
Capisco che la mia condizione di religioso di per se’ mi pone in una situazione anomala perche’ e’ chiaro che io lavoro gratuitamente, ma e’ altrettanto vero che la Congregazione si prende cura di tutti i miei bisogni e delle mie necessita’ economiche.
Un medico onesto e buono e’ chiaro che abbia bisogno del suo onorario e di una giusta remunerazione.
Quello che pero’ a volte mi sconvolge e’ la totale trasformazione della professione medica in business. La cosa mi turba molto di piu’ nei Paesi in Via di Sviluppo, dove molta gente e’ povera e dove per lo piu’ la sanita’ e’ a pagamento.
Ho visto gente lasciata fuori dal cancello degli ospedale perche’ non aveva soldi; sono testimone oculare di gravissime ferite da panga non suturate per la stessa ragione. So di casi in cui un intervento chirurgico viene eseguito solo in strutture private ed a prezzi esorbitanti, tagliando di fatto fuori molti clienti meno abbienti. Sono testimone oculare di malati lasciati letteralmente a “marcire” in certi reparti perchè non avevano la possibilità di pagare la parcella privata del chirurgo.
Non so dove sia il giusto mezzo da questo punto di vista, ne’ voglio esprimere dei giudizi verso gli altri.
Ritengo comunque immorale lasciar morire una persona semplicemente perche’ non ha i soldi per pagarsi le cure; lo stesso dicasi per il rifiuto di un intervento che potrebbe impedire a quel malato di essere handicappato per la vita...
Personalmente mi ritengo fortunato di essere nella posizione di poter lavorare senza uno stipendo, perche’ questo mi autorizza anche ad accogliere quelli che comunque non mi potranno pagare.
Altrettanto sbagliata e’ secondo me la competizione feroce e sleale tra colleghi. Ippocrate insiste molto sulla solidarieta tra i membri della famiglia medica: quando pero’ il fine dell’operato del medico non e’ il paziente ma i soldi, e’ chiaro che il collega non e’ un tuo familiare, ma un tuo competitore che ti porta via clienti e potenziali fonti di reddito. 
Allora, se riesci a mettere in giro false accuse di incompetenza nei confronti dei tuoi colleghi, magari speri di poter avere piu’ cienti e piu’ soldi... ma questa e’ una realta’ che aborrisco con tutte le forze. 
I medici dovrebbero collaborare, consultarsi, aiutarsi, darsi dei consigli terapeutici, difendersi vicendevolmente, non parlare male gli uni degli altri...anche perchè tutti sbaglioano e nessuno è perfetto.
E’ chiaro comunque che il giuramento di Ippocrate e’ ancora un’utopia.
Altra cosa che aborrisco nel medico e’ la presunzione.
Il medico deve essere in ospedale come il capofamiglia: deve essere “primus inter pares”; con umilta’ deve stabilire delle linee guida e dei protocolli, in modo da rendere autonomi gli infermieri ed i clinical officers. Deve corregere con paterno affetto e non con tracotanza e superiorita’. Deve instaurare rapporti positivi con il resto del personale, in modo che tutti facciano quello che dice, non per paura, ma per fargli piacere. 
Un medico presuntuoso e traconante forse otterra’ delle cose mentre lui e’ presente, ma, se gira l’angolo, tutti se ne fregheranno di quello che lui vuole e faranno il contrario. Se invece il dottore sa farsi rispettare con l’affetto, allora tutti vorranno seguire i suoi insegnamenti, per rispetto e per non farlo star male.
Certo il medico deve essere anche il formatore del gruppo. Deve studiare lui stesso continuamente per poter trasmettere allo staff conoscenze sempre aggiornate che possano garantire il piu’ alto standard possibile di servizio in ospedale.
Credo che il medico debba essere anche il trascinatore ed il modello per tutto il personale, e credo che questo lo debba fare soprattutto con l’esempio: il medico deve essere presente al letto dei malati, deve spendersi, deve donarsi, ed allora il suo esempio sara’ seguito da tutto. Le parole non trascinano... l’esempio della vita si’.
Il grande nemico del medico è comunque sempre la morte. Egli si confronta quotidianamente con essa e non può far finta che non esista.
Un Professore di Medicina Tropicale di Anversa diceva, forse un po’ cinicamente, che per imparare bisogna sempre passare sopra qualche cadavere. Questa affermazione sembra terribile, ma quanto mai veritiera. Una persona si forma soprattutto attraverso brucianti errori, che rimangono così impressi nella mente da non essere più ripetuti.
Purtroppo in Medicina gli sbagli non si riparano facilmente, e a volte conducono addirittura alla morte.
Veder morire una persona per cui ti sei impegnato tantissimo e’ sempre una sconfitta gravissima per un medico. Se poi questo malato era giovane e lascia dietro di se’ una piccola creatura orfana ed un consorte affranto, il senso di fallimento diventa doloroso e frammischiato a innumerevoli sensi di colpa: “ho fatto veramente tutto quello che potevo? Dove ho possibilmente sbagliato?”
A questo si aggiunge l’angoscia di dover affrontare i parenti: la paura di non saper far fronte alle loro emozioni; il timore che, in un momento di rabbia, ti accusino anche di cose che non hai fatto.
La profonda depressione che segue la morte di un malato affidato alle tue cure non e’ un segno di “delirio di onnipotenza”: lo sappiamo tutti che in medicina ci sono battaglie perse in partenza, ed altre che hanno alte percentuali di sconfitta. 
Ci rendiamo conto che ogni procedura da noi eseguita ha delle percentuali di mortalita’ che sono ormai conosciute in tutto il mondo e documentate in letteratura. Ma quando quel “per cento” riguarda te e la persona per la cui sopravvivenza stavi lottando, le cose cambiano. Il mondo sembra crollarti addosso. 
A volte fa capolino la tentazione di bloccarsi: “non faro’ mai piu’ quella cosa”. Il tuo cuore lo sa che si tratta di una reazione psicologica infondata e pericolosa... dentro di te senti che sarebbe uno sbaglio buttare nel cestino la patente dopo un incidente stradale... ma la tentazione e’ forte.
Bisogna davvero metterci molta forza di volonta’, per fare una analisi oggettiva di tutto il piano terapeutico ed eventualmente correggere delle possibili lacune nei protocolli dell’ospedale... ma soprattutto occorre farsi forza e continuare a lavorare, perche’ ritirarsi nelle fobie, priverebbe molti altri malati di servizi necessari alla loro sopravvivenza.
Quando poi tutto capita alle 3 di notte, e’ chiaro che non ci sarà verso di prendere sonno nuovamente, ed il letto diventera’ come una prigione.

Vorrei concludere questa mia piccola riflessione su ciò che tento di essere e sull’ideale di medico che ho in testa, parlandovi anche di un aspetto propriamente mio, un aspetto legato al fatto di essere allo stesso tempo un medico ed anche un religioso: e cioè la continua dicotomia tra l’azione e la contemplazione, tra il servire ed il pregare. 
Quest’anno per esempio, per motivi di emergenze varie, non sono riuscito a partecipare ad alcuna delle funzioni liturgiche del triduo pasquale, tanto importanti nella vita cristiana. 
Ho condiviso la mia frustrazione interiore con qualcuno: una persona mi ha risposto: “essere religioso ed essere medico, almeno a Chaaria, sembrano due cose incompatibili”; un altro invece mi ha detto con sicurezza: “la tua preghiera era qui ad aiutare chi sarebbe morto senza il tuo intervento”.
Ripenso spesso a come sono le mie ore di preghiera in comunità.
E’ cosi’ frequente per me non riuscire a partecipare alla preghiera comunitaria o essere gravemente in ritardo che e’ ormai un luogo comune affermare che io a pregare non ci sono mai. 
Onestamente lo sforzo ce lo metto davvero, ma spesso le circostanze mi impediscono di tradurre in fatti i miei desideri.
Anche qui però pian piano sto arrivando alla mia piccola sintesi interiore.
Per me oggi la dedizione a chi ha bisogno, la scelta preferenziale per i poveri che hanno il diritto di chiedermi un servizio fino al sacrificio della salute e della vita, sono la mia strada maestra per andare a Dio. 
Certo, pregare è importante, e quando posso sento il bisogno di stare con Dio, ma non mi sento di fare lunghe preghiere: ora preferisco il silenzio. 
Preferisco far vedere la mia fede ed il mio amore al Signore attraverso le opere, soprattutto attraverso il servizio dei malati.
Dedizione totale a chi soffre, finche’ le forze me lo concedono; silenzio ed abbandono al Signore ogni volta che in Lui mi posso rifugiare … queste mi sembrano le stelle polari che guidano oggi i miei giorni. 
Sento che Gesu’ mi accetta cosi’ come sono, perche’ Lui non guarda all’apparenza ma al cuore, e conosce l’impegno quotidiano che ho nel profondo sia come medico che come religioso.


Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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