Quando sono
particolarmente stanco ed un po’ ferito dalla vita, c’è un posto segreto dove
mi rifugio per qualche minuto.
Salgo la collina di
Chaaria fino al punto più alto del nostro appezzamento e là trovo il nostro
cimitero. Lo chiamo Spoon River, ricordando un libro che tanto mi ha commosso
al liceo.
In esso provo una sensazione di pace e di riposo e spesso cerco
risposte alle mie domande. Là prego coloro che ci hanno preceduti ed a loro
chiedo aiuto, consiglio ed intercessione.
Attraversato il cancello
arrugginito dalle piogge, alla mia sinistra contemplo la brulla distesa di
terra rossa in cui mese dopo mese scaviamo le fosse comuni dove deporre i tanti
morti abbandonati nel nostro ospedale. Sono tantissimi, troppi: “perchè la
gente non viene a prendere i propri defunti?”
Tra me penso: “dove sono
Emily, Charity, Mwenda o Mwandiki? Dove sono le centinaia di bambini spirati
prima ancora di ricevere un nome?”.
Una voce interiore mi
risponde: “siamo tutti qua e riposiamo nel ventre della collina. Ci hai portati
qui tu, perchè i nostri familiari ci hanno trascurati prima in vita e poi anche
nel momento in cui la nostra anima è volata via. Qualcuno di noi non ha neppure
visto la luce del sole e non ha potuto contemplare il volto della mamma perchè
la morte è sopraggiunta nel grembo materno.
Altri la mamma l’hanno goduta per
troppo poco e sono stati stroncati da una malaria o da una terribile polmonite.
Qualcuno di noi è grande: siamo padri e madri di famiglia, nonni e nonne con
tanti nipoti. Perchè dobbiamo riposare su questa collina insieme a tante
persone abbandonate come noi?
Dove sono i nostri figli che non hanno trovato il
tempo di venire a visitarci in ospedale durante l’ultima malattia e non hanno
fatto uno sforzo per darci una tomba a casa loro in modo che il nostro spirito
ancora potesse star loro vicino? Non abbiamo fatto abbastanza per i nostri
figli in modo da meritarci la fossa comune di questa collina? Tanti di noi
erano contadini, ma tra di noi non mancano i farmacisti, i commercianti, i
pastori od i fotografi: olra siamo tutti qui”.
E’ normalmente notte
quando io e Fratel Giancarlo saliamo la collina per affidare alla terra queste
anime dimenticate. Anche stasera ne dobbiamo seppellire 12, tutti di età
inferiore ad un anno. Il funerale ordinariamente comincia alle 21.30, dopo
l’ultima preghiera in cappella: scendiamo in obitorio con l’auto, e li’
carichiamo i corpicini che sono avvolti semplicemente in stuoie di nylon nero.
Normalmente li seppelliamo una settimana dopo il decesso, per dare la possibilità
alle mamme di andare al villaggio e di dare la notizia… sempre sperando che
qualche piccolo venga portato a casa per la sepoltura in famiglia.
Con l’auto piena di questo mesto fardello ci inerpichiamo alla volta del nostro
cimitero, e verso le fosse comuni: non
sarebbe infatti possibile per noi dare una tomba singola per ognuno; troppo
lavoro e troppo spazio sarebbero richiesti, trasformando in breve tutto il
nostro campo coltivato in un enorme camposanto. Sfruttiamo quindi il terreno in
verticale: le nostre tombe sono profonde quanto un campanile.
Arrivati vicino alle tombe con la macchina, normalmente disponiamo i
corpicini sulla nuda terra, tutti in fila.
In questa operazione siamo aiutati
solamente dalla luce delle nostre torce, in quanto non c’e’ alcuna
illuminazione vicino al cimitero. E’ quasi sempre una scena surreale: spesso il
cielo e’ colmo di stelle e sembra un magnifico arazzo.
Nell’aria si sente il
grugnito dei maiali della casa dei nostri vicini; qualche cane abbaia in
lontananza, mentre le nostre scimmie notturne lanciano grida incuriosite dalla
cima degli alberi. Non celebriamo alcun rito particolare: e’ troppo gravoso per
noi organizzare una funzione funebre praticamente quasi tutti i giorni.
Diciamo
una breve preghiera e poi, ad uno ad uno, lanciamo nella fossa le salme, che
raggiungono il suolo con un tonfo ottuso dopo alcuni secondi di caduta libera
nel buio assoluto della fossa comune. Ogni volta che sentiamo questo rumore
sulla terra, avvertiamo anche un colpo nel nostro cuore, e meditiamo su quanto sia
spesso ingiusta la vita: a qualcuno viene negata addirittura una degna
sepoltura...
Copriamo quindi i morti che abbiamo appena “buttato” con uno strato di
terra non superiore ai 10-15 cm: lavoriamo al buio ed in silenzio, con
l’ausilio dei nostri badili e della pila che ci serve a controllare quando
tutti le salme sono state coperte sufficientemente.
Non possiamo mettere troppo
terreno… se no, la fossa comune si riempirebbe troppo in fretta. Il tutto poi
si conclude con la chiusura del tumulo tramite lamiere ondulate, su cui
mettiamo grossi pietroni, per evitare che cani randagi o iene vadano di notte a
profanare i nostri morti.
Quando torno di giorno sulla collina di Spoon River, penso a tutte queste
persone abbandonate e da noi sepolte con tanta pace, ed a loro chiedo di
pregare per noi e di aiutarci a tirare avanti in questa avventura
dell’ospedale, che ogni giorno pare diventare più complicata.
A destra del cancelletto invece, il cimitero è più verde e ci sono semplici
tombe di terra battuta su cui spunta una croce di legno sulla quale è scritto
un nome:
“siamo i Buoni Figli. Abbiamo vissuto qui per tutta la nostra vita. Eravamo
abbandonati dai nostri cari, ma qui abbiamo trovato una casa ed un focolare che
ci ha fatti sentire vivi, finchè il Signore ci ha chiamato a sè. Noi siamo
stati molto più fortunati dei nostri vicini che qui riposano nella fossa
comune.
Per noi è stato celebrato un vero funerale con tanto di Messa; abbiamo
persino la cassa da morto, mentre loro sono avvolti semplicemente in una
piccola stuoia. La cosa triste è che neppure alla cerimonia funebre i nostri
familiari si sono fatti vedere.
Ci hanno portati a spalle i Fratelli, ed hanno
pregato per noi i dipendenti del Centro e le suore. Io mi chiamo George e sono
morto di diabete; io invece sono Kamau: ho sempre avuto il torace deformato ed
un giorno la polmonite ha avuto il sopravvento su di me, perchè non avevo la
forza di tossire. Siamo in tanti qua e facciamo parte della famiglia di
Chaaria, l’unica che non ci ha mai abbandonati nè in vita nè in morte”.
Mentre guardo le loro povere tombe su cui crescono “lingue di suocera”, so
che posso sempre contare sulla loro intercessione perchè sicuramente sono
angioletti del Paradiso.
Più a monte ci sono invece due tumuli in tutto simili agli altri, ma con la
croce un po’ più grossa. Sulla prima leggiamo Fr Giovanni Bosco Bordino. E’ il
primo Fratello morto e sepolto a Chaaria insieme ai malati ed ai Buoni Figli.
Parlo spesso con lui quando vengo qui al cimitero, perchè lo conosco da
tantissimi anni, sin dal 1980 quando ero
ancora un aspirante nella famiglia religiosa del Cottolengo.
Era sempre molto preoccupato per me e voleva che mangiassi di più perché
ero troppo magro.
Egli era convinto che la vocazione si misurasse a chili e,
siccome a quei tempi il mio peso non superava i 55 Kg., mi diceva che avevo
poca vocazione e che la terapia adatta per il rinforzo della mia chiamata
sarebbe stata a base di budino al cioccolato.
Poi ci siamo un po’ persi di vista, a parte qualche vacanza insieme al
Grand Puj, dove alternavamo camminate sulle vette a mangiate luculliane a base
di torte e pasticcini.
Ci siamo poi ritrovati in Kenya ed è a Chaaria che ho davvero conosciuto ed
apprezzato questo grande Fratello che ora riposa sulla collina.
Era un uomo veramente gioioso nel profondo del cuore: cantava di continuo e
vedeva sempre il lato positivo delle situazioni. Giovanni era una figura
davvero importante nella comunità perché sapeva ridere e far ridere e, nei
momenti di tensione, sapeva sempre sdrammatizzare.
Egli non era capace di
tenere il muso e con lui ci si riconciliava subito, anche senza bisogno di
parole. Si capiva benissimo che ti aveva perdonato perché, immediatamente dopo
lo screzio, discorreva con te con la serenità di sempre. Parlava bene di tutti,
nessuno per lui era cattivo; aveva un’interpretazione positiva per qualunque
cosa gli capitasse intorno.
Forse questa caratteristica gli derivava dalla sua profonda vita interiore:
era un uomo di costante preghiera.
Era sempre presente agli atti comunitari e
trovava ampi spazi per la preghiera personale durante il giorno. Amava molto
pregare il rosario, anche quando si trovava fuori dalla comunità, magari per
una scampagnata con i bimbi della parrocchia, con i Buoni Figli o con i
volontari italiani.
Aborriva le celebrazioni sontuose, soprattutto se si
trattava di eccessi di predicazione o di esagerazioni nei canti o nelle danze
liturgiche; sapeva esprimere questo disappunto, leggendosi un libro durante
l’interminabile funzione o addirittura lasciando la chiesa per andare a
ritirarsi nella silenziosa cappella dei Fratelli, dove poteva trovare un clima
più consono alla sua contemplazione.
Fr. Giovanni Bosco è stato un vero Salesiano nel cuore, oltre che un
autentico Cottolenghino. Con questo intendo sottolineare il suo tenero amore
per i bambini, a cui dedicava le sue attenzioni e tutto il suo tempo libero
domenicale: Giovanni, infatti, usciva tutte le domeniche con i ragazzi, facendo
due escursioni: la prima era in macchina, in modo da poter portare fuori anche
alcuni Buoni Figli paralizzati; la seconda, poi, era a piedi, verso qualche
angolo di natura incontaminata, come una collina, un fiume o una cascata.
Quando usciva per la seconda passeggiata vestiva rigorosamente la maglietta del
suo “Toro”, di cui era appassionato tifoso, e dietro di lui si snodava una fila
di almeno 30 bambini di età compresa fra i 5 ed i 12 anni. Lo seguivano perché
nella sua borsetta c’era sempre un pallone e qualche leccornia che Giovanni
aveva sottratto alla mensa comunitaria, naturalmente con i dovuti accordi con
il Superiore.
“Sono morto attaccato da uno sciame inferocito di api africane, che mi
hanno punto da tutte le parti, fino a causarmi uno shock anafilattico e farmi perire
a due passi da un fiume che avrebbe potuto salvarmi la vita, se solo ci fossi
arrivato per immergermi e proteggermi da quegli insetti... ma non ce l’ho fatta
perchè sono caduto su una roccia ed ho perso i sensi, dando alle api il tempo
di ferirmi ancora ed ancora, e da allora dormo anche io su questa collina”
E’ sintomatico che la tragedia che ce lo ha tolto per sempre sia successa
di domenica, durante un’uscita a piedi con i suoi bambini. Ciò che rimane un
mistero è che Dio lo abbia chiamato in questo modo così tragico, sotto gli
occhi sconvolti dei suoi ragazzi, proprio il 5
giugno 2005, giorno del suo compleanno.
Nessuno dei bimbi lo chiamava per nome: tutti lo conoscevano come “AMICO”.
Questo era diventato il suo appellativo e, per così dire, la sua seconda
natura: realmente egli era l’amico dei giovanissimi e dei deboli mentali.
Con i nostri Buoni Figli spendeva del tempo a chiacchierare e a giocare a
dama, oltre che passeggiare. Li
accoglieva come suoi figli e spesso li chiamava “i miei padroni”.
Ma Giovanni era anche un matematico e con passione studiava e ristudiava i
vari teoremi della geometria e della trigonometria che tutti noi abbiamo
completamente rimosso dopo la fine del Liceo.
Tale passione per la matematica
lo ha sostenuto nel compito di economo della missione: egli ha sempre
controllato entrate ed uscite con precisione certosina, senza mai usare la
calcolatrice, che egli riteneva un abominio. Suo unico sostegno era il “regolo
calcolatore” che portava con sé dai tempi della scuola superiore.
Di lui desidero ricordare l’umiltà. Sceglieva normalmente l’ultimo posto,
non voleva mai apparire. Sapeva sempre adattarsi alla compagnia: era capace di
essere piccolo con i Buoni Figli, giovane con i postulanti ed i volontari,
pacato con i confratelli più anziani.
Per sé desiderava uno stile di vita povero, che si accontentasse sempre di
poche cose, soprattutto nel vestire e nell’apparire. Era un uomo che sapeva
vivere all’essenziale.
Non voleva mai disturbare: quasi si scusava se a volte aveva bisogno di
chiedere dei soldi per qualche esigenza personale.
Proprio il giorno precedente
alla sua dipartita, commentando la lunga sofferenza di un prete gravemente
ammalato in ospedale, Fr. Giovanni diceva in comunità: “Spero solo che io
non debba disturbare nessuno quando sarà la mia ora. Chiedo al Signore una
morte veloce, che non dia problemi ai miei confratelli”. Ed è stato proprio
così: se n’è andato in un baleno. Chissà se ha sofferto? Tutti pensavano che ad
ucciderlo sarebbe stato il diabete che da anni lo affliggeva, vista la arcinota
intemperanza nel consumo di dolci; ed invece sono state le api, le produttrici
di quel miele che Giovanni tanto amava.
Penso che il funerale sia stato l’epilogo più adatto alla sua vita buona:
tutti gli volevano bene e lo hanno dimostrato venendo a migliaia a porgergli
l’ultimo saluto.
Ma i suoi prediletti erano i bimbi, che sono intervenuti a
centinaia, da tutte le scuole primarie del circondario. Per lui tutti hanno
pregato, hanno buttato una manciata di terra sulla sua bara, hanno piantato un
ramoscello verde sulla tomba che ora appare un po’ incolta. I bambini, poi,
hanno intonato un lungo canto di addio, mentre i Fratelli lo calavano sotto
terra.
Al
suo funerale non c’erano fiori, né ci sono stati i tradizionali e lunghi
discorsi delle autorità politiche e religiose. Questo per espresso volere di
Fr. Giovanni che non avrebbe tollerato che si spendessero soldi in fiori che
poi sarebbero appassiti in due giorni; o che si dicessero tante parole su di
lui, che si è sempre considerato un piccolo “servo inutile del Vangelo”.
“Mi
consola pensarti in Paradiso, caro Fratello. Grazie di quello che sei stato per
me e degli esempi che mi hai dato”
Ma
la tomba che attira di più il mio cuore nei miei momenti di fuga è quella
accanto: le solite “lingue di suocera” su un semplice tumulo di terra. Una
croce di ferro su cui si legge: Fratel Ludovico Novaresio.
“Sono contento di
riposare qui sulla collina dopo la mia lunga vita in missione. Stando qui a Chaaria sulla collina vi sarò ancora
più vicino e pregherò sempre per voi”.
Sin da quando entrai in
Congregazione nel 1981, la figura di Fr Lodovico è stata centrale nella nostra
formazione.
Lui era già in Kenya e di lui sentivamo solo parlare. Ci veniva
comunque descritto come uno dei pilastri fondamentali della nostra famiglia
religiosa; come uno degli artefici della sua approvazione pontificia; come il
primo superiore generale, ed anche come la punta di diamante della prima
esperienza missionaria in Africa dei Fratelli Cottolenghini. Ci veniva inoltre
presentato come un grande formatore, sia nell’ambito della vita religiosa che
in quello delle arti infermieristiche.
Venivamo quindi a
conoscere e ad ammirare una persona coerente e radicale tanto con se stesso
quanto nei suoi rapporti con gli altri, una persona totalmente dedita a Dio
nella preghiera e nel servizio incondizionato ai poveri. Era per noi certamente
un modello da imitare.
Conobbi Fr Lodovico
personalmente alla fine degli anni ottanta quando venne in Italia per l’intervento
di prostatectomia: allora ero studente di medicina, e, quando andavo a trovarlo
in ospedale, lui mi spiegava dei bisogni di salute del Kenya e cercava di
infondermi la passione per la missione.
Rientrato in Kenya dopo
la guarigione, Fr Lodovico mi aiutò moltissimo per la stesura della mia tesi di
laurea sulle “diarree batteriche e parassitarie nei Paesi Toropicali e
Subtropicali”, inviandomi materiale e statistiche dal dispensario di Chaaria.
Per la prima volta venni quindi a conoscenza del numero strabiliante di
pazienti che egli riusciva a visitare ogni giorno.
Era il 1996 quando per la
prima volta misi piede sul suolo africano. Ci venni inviato come medico per
accompagnare Fr Lodovico in Italia: era infatti gravemente malato a causa di un
attacco malarico che le medicine del posto non riuscivano a controllare.
Facemmo il volo di ritorno insieme e fortunatamente nulla acadde sull’aereo. Fr
Lodovico venne ricoverato all’ospedale Cottolengo di Torino e si riprese
abbastanza rapidamente, dopo un periodo di convalescenza a Feletto.
Ma “il mal d’Africa” in
lui era inguaribile: a lui mancava troppo la sua Chaaria. I superiori
compresero e permisero a fr Lodovico di tornare in Kenya.
Il suo rientro avvenne
nel 2000, e da allora abbiamo sempre vissuto insieme.
Quando giunsi a Chaaria,
il dispensario (ora ospedale) era ormai diretto da Fr Maurizio, mentre Fr
Lodovico si dedicava a tempo pieno ai lavori agricoli nella shamba. La cosa che
ricordo di lui da subito è il fatto che al mattino alle 5 era già in cappella a
pregare e che dopo la compieta si tratteneva in cappella fino alle 22. Spesso a
quell’ora io andavo a dormire un’oretta
dopo un cesareo notturno, e, tornando in comunità, vedevo la luce in cappella
già accesa: ero certo che si trattava di Fr Lodovico.
Lavorava tanto nei campi
e coordinava i ritmi delle coltivazioni e le attività zootecniche. Ricordo che
spesso mi chiamava per curare delle mucche malate, ma io non sapevo che pesce
pigliare.
Lui allora mi diceva quante compresse somministrare ad una vacca per
i vermi e quale fosse la dose di antibiotico per una mastite bovina. Lo ricordo
ancora mentre suturava il soppracciglio di una mucca che aveva ricevuto una
cornata da un suo simile, mentre io tenevo le distanze di sicurezza ed ero
abbastanza impaurito.
Nei primi anni del mio
lavoro a Chaaria io ero molto disorientato perchè in Italia ero abituato a
fronteggiare solo casi di medicina interna e malattie infettive, mentre a
Chaaria mi si presentavano le patologie più disparate: spessissimo ho quindi
chiamato Fr Lodovico in dispensario per insegnarmi delle cose e darmi dei
consigli. In particolare rammento i gessi: è stato lui a regalarmi la tecnica
con pazienza e con precisione.
Fr Lodovico è stato
sempre molto positivo su tutti gli sviluppi che Chaaria stava prendendo: ha
sostenuto l’apertura dell’ospedale, l’inizio della maternità ed il bisogno di una
sala operatoria.
Pur essendo lui stesso
molto fedele alla preghiera, non mi ha mai giudicato quando ero in ritardo a
motivo del servizio o per emergenze notturne. Mi confidava spesso ed ora qui
sulla collina mi ripete nel cuore: “la comunità deve pregare anche per te che
stai su di notte a ‘pregare’ attraverso il servizio ai malati”.
Nonostante la veneranda
età e la sua formazione iniziale a Torino in anni in cui la Vita Religiosa era
certamente molto più rigida di oggi, Fr Lodovico ha sempre dimostrato
un’apertura mentale che mi ha continuamente stupito: “devi prenderti dei giorni
fuori dall’ospedale, altrimenti muori... non bastano poche ore; ci vogliono
alcuni giorni di stacco ogni due o tre mesi”.
Onestamente non l’ho mai
ascoltato, anche se so che ha profondamente ragione!
Negli ultimi tempi, ormai
ridotto all’isolamento in camera sua, alla veneranda età di 95 anni, Fr Lodovico riusciva ancora a dirmi: “non
preoccuparti di venire a recitare il Vespro da me. Quando non ci sei a pregare,
non devi chiedere scusa, perchè lo so dove sei.”
Fino agli ultimissimi
giorni della sua vita ha conservato un’intelligenza acuta ed un grande
interesse non solo per lo sviluppo di
Chaaria ma anche per le sorti della Piccola Casa e della Congregazione dei
Fratelli.
Nei momenti di silenzio
che riesco a ricavarmi sulla collina a fianco della sua tomba sento nel cuore
che Fr Lodovico mi ha voluto molto bene; credo che nel mio lavoro in ospedale
egli vedessi il fruttificare della sua opera in dispensario sia a Tuuru che a
Chaaria.
Ha creduto fortemente nella continuità tra il “Chaaria Catholic
Dispensary” da lui fondato ed il “Cottolengo Mission Hospital”, che ne è stato
la spontanea evoluzione.
Di fronte alla sua fossa
ricordo che lui non mi ha mai offeso e non mi ha mai fatto del male in tutti
questi anni: non ha mai cercato di scoraggiarmi o di dirmi che Chaaria stava
diventando un progetto megalomane, autocentrato o ingestibile. Ha creduto fino
alla fine al nostro servizio non solo in ospedale ma anche dai Buoni Figli.
Mi commuove il fatto che
l’anno scorso, quando ha sentito che forse la vita gli stava sfuggendo di mano,
mi ha chiamato in stanza per una visita medica, e, prima di spiegarmi quello
che sentiva, mi ha detto con un ampio sorriso: “ormai il tempo della Festa è
arrivato. Vi aspetto tutti là, e vi starò ancor più vicino”.
E’ naturale per me,
quando sono al cimitaro nel silenzio, riandare con la mente alla lettera che mi
ha lasciato e che mi ha chiesto di aprire solo dopo il suo ultimo respiro. In
essa ha scritto, tra le altre cose: “desidero un funerale povero, perchè povero
era Gesù sulla croce. Ho già chiesto ai superiori ed ai miei familiari di non
venire, per risparmiare i soldi dell’aereo e per impiegare quel denaro per i
poveri ed i bisognosi.
Voglio un funerale umile e soprattutto desidero di
essere sepolto qui con voi: vi ho voluto tanto bene ed ora potrò volervene
ancora di più, e stando con voi anche fisicamente nel cimitero di Chaaria,
potrò esservi ancor più vicino”.
Quando vengo qui sulla collina
e gli parlo dei miei problemi e delle mie difficoltà, ancora sento un grande
vuoto ed un nodo alla gola. Mi manca un grande punto di riferimento, la sua
costante parola di incoraggiamento, la certezza che lui pregava per noi notte e
giorno. Mi manca il padre che mi consola ed il modello che tento di imitare.
Fr Lodovico riposa sulla
collina dall’agosto 2014; avrebbe voluto un funerale in forma assolutamente
privata, “per non disturbare” (mi sembra di sentirlo ancora): la gente però è
venuta in massa perchè lo ama e lo rispetta: “è lui che ha iniziato tutto qui a
Chaaria...è il fondatore della missione. Ci ha sempre curati tutti
gratuitamente sin da quando eravamo bambini.
Quante volte ha medicato le piaghe
che affliggevano le mie gambe e non mi ha mai chiesto uno scellino, anzi, al
momento del raccolto, ci regalava anche granoturco e fagioli. Quanto lavoro
faceva! Visitava tutti, dava le medicine personalmente e poi, dalle 3 del
pomeriggio in avanti, andava a zappare nel campo fino al tramonto”.
Desiderava un funerale “a
porte chiuse”, ma è stato un bagno di
folla: un bagno che Fr Lodovico ha meritato pienamente per la sua dedizione, il
suo servizio, la sua fedeltà a Dio.
Qui sulla collina trovo
momenti di pace; ristabilisco una connessione con il passato; trovo continuità
con ciò che è stato e riprendo speranza che tutto quanto abbiamo iniziato non
possa finire in un pugno di mosche.
Qui riesco a pregare un attimo in silenzio:
spesso non sono preghiere preconfezionate, ma domande, richieste, confessioni, dialoghi
con chi mi ha preceduto ed ora dorme; a volte chiedo scusa a quei pazienti a
cui forse ho fatto qualche sgarbo involontario o per i quali mi rodo il cuore
dicendo:”cosa avrei potuto fare di più per salvarli?”.
Chiedo perdono a quelli
a cui ho detto: ”ti visito più tardi...ora non ho tempo; ma quel più tardi non
è mai arrivato perchè loro sono volati in cielo prima che io tornassi”. Qui sovente
mi chiedo che senso ha una vita durata un giorno, oppura un’altra lunghissima
ma finita nell’abbandono di una fossa comune.
Anche se nessuno conosce
il futuro ed i piani che la Provvidenza ha per ognuno di noi, talvolta oso
sperare che un giorno anche io potrò riposare qui sulla collina a fianco di Fr
Lodovico e fr Giovanni, ed insieme a tante persone da me curate.
Fr Beppe
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