lunedì 18 maggio 2015

I ragazzi di strada (seconda parte)

...Mi è molto caro parlarvi un attimo di Albert. Lo avevo conosciuto bambino nell’anno 2000, a Meru, una domenica in cui eravamo andati a fare una clinica mobile nella zona povera di “Shauri Lako”: aveva tantissimo mal di denti, ma ci era sembrato brutto fare estrazioni a catena (l’unica cosa che potessimo fare in quella clinica mobile). Avevamo quindi deciso di portarlo a Chaaria e di fare delle cure odontoiatriche nei giorni successivi: di otturazione in otturazione, gli abbiamo ridonato un sorriso smagliante e perfetto. Inoltre a Chaaria aveva mangiato bene e gli avevamo dato dei vestiti nuovi. Temevamo che ci chiedesse di restare con noi in modo stabile, perchè non eravamo pronti in quel momento ad avere un bambino in missione (ci avevamo già provato in passato con un altro ragazzo problematico); avevamo quindi pensato ad un inserimento all’HURUMA CENTER di Mujwa... ma il suo spirito libero lo ha potentemente richiamato verso la strada: finite le cure, ci ha ringraziati e se n’è ritornato a Meru. 


Da allora è sempre rimasto affettivamente legato a noi: faceva la guardia all’auto quando la parcheggiavamo in zone poco raccomandabili di Meru; aiutava l’autista a caricare sulla vettura le vettovaglie acquistate nei giorni delle grandi spese. E la cosa bella è che pare da noi abbia pian piano imparato il valore di una vita onesta. Infatti, diventato più grandicello, ha trovato un lavoro stabile presso una compagnia di autobus che fa servizio tra Meru e Mombasa. La sua mansione è quella di caricare le merci che vengono stipate nel bagagliaio e sulla bagagliera. Inoltre si occupa anche delle valigie dei passeggeri. Con il passare degli anni l’ho visto sempre più maturo, vestito meglio, e ricco di una sua dignità nata dalla coscienza di essersi fatto da solo. Lo vedo ancora qualche volta anche ora: continua a lavorare presso la stessa ditta e l’ultima volta che sono andato a Mombasa con il pulman, non la finiva più di ringraziarmi e di abbracciarmi. Proprio in quella occasione mi ha confidato di essersi sposato e di avere ora una stanza in affitto in cui vive con la consorte: “non sono più un ragazzo di strada, ma un uomo di casa”, mi ha ripetuto più volte con orgoglio.
Federica invece era una bambina abbandonata che ho conosciuto quando già era accolta all’HURUMA CENTER. Ai tempi andava alle scuole superiori, grazie a noi e ad altri donatori che sostenevano quella missione. Però era depressa ed aveva chiari disturbi psicologici che nascevano in gran parte da tristi vicende passate in cui era stata vittima di un pedofilo. Ho seguito Federica a lungo, come suo medico personale; lei è gradualmente migliorata ed ha sviluppato nei miei confronti un affetto filiale che ancora oggi la porta a chiamarmi “papà”. Diventata maggiorenne le abbiamo offerto un posto di lavoro qui all’ospedale e l’abbiamo aiutata a trovare una casa in affitto. Federica è molto buona e tuttora è nostra dipendente. E’ ora sposata ed ha due meravigliosi bambini.
Peter invece aveva si’ e no 5 anni quando per la prima volta fu presentato a Fr Lorenzo e Fr Maurizio nel 1995. Era uno “street boy”: padre latitante come sempre, madre psichiatrica e forse messa in cinta per gioco. Viveva in una capanna di fango a Mujwa, ma era magrissimo, non andava a scuola e si aggiustava con espedienti perche’ la mamma non era in grado di provvedere a lui.
Lorenzo e Maurizio non ebbero dubbi nel ritenerlo un caso “da Cottolengo” e lo accolsero in una stanza annessa al centro “Buoni Figli”: l’intenzione era quella di ospitarlo e di mandarlo a scuola, fino a quando avesse raggiunto l’eta’ per guadagnarsi da vivere. Fu iscritto alla pre-primary di Chaaria, e, dopo le lezioni, tornava da noi.
I problemi della sua prima infanzia non tardarono pero’ a farsi vedere: violento con i compagni di scuola, svogliato a lezione, assenteista. Questo comportamento fu motivo di frustrazione notevole per tutti i Fratelli, compreso Fr Giovanni Bosco, che aveva supportato l’intervento di pronto soccorso sociale nei confronti di questo vero “Pierino la peste”. Fu necessario sospendere di tanto in tanto la sua frequenza scolastica perche’ gli insegnati non lo volevano piu’.
Ma i problemi piu’ gravi dovevano ancora sorgere: Peter, con il passare degli anni e con la complicita’ di alcuni dipendenti, imparo’ l’arte del furto: veniva usato da alcuni membri dello staff che lo mandavano a rubare dentifricio, scarpe, coperte e vestiti appartenenti ai nostri ospiti. Normalmente questa refurtiva veniva accumulate in un punto specifico vicino alla recinzione. A sera poi gli adulti coinvolti passavano a ritirare il tutto attraverso una apertura nella rete. Il bambino poi riceveva regali direi irrisori. Questo racket venne pero’ scoperto grazie ad alcuni dipendenti che soffrivano per questa continua disonesta’ di alcuni loro colleghi. Alcuni operai vennero licenziati e per Peter si penso’ ad un inserimento in una famiglia locale a cui avremmo pagato una specie di salario affinche’ ce lo tenessero, e lo formassero in modo adeguato: anche questa esperienza duro’ poco perche’ Peter continuo’ a comportarsi da vero ragazzo di strada: disubbidiente e “strafottente”. La goccia che fece traboccare il boccale fu quando, per puro divertimento, la nostra peste accecò l’unica mucca della famiglia.
Eravamo da capo. Non sapevamo piu’ cosa fare. Intanto il tempo era passato velocemente ed il bambino era diventato un adolescente ed aveva concluso in qualche modo il ciclo scolastico delle “primary schools”. Il comportamento non accennava a migliorare. Lorenzo si scoraggio’ ed allora provai io: le abbiamo tentate un po’ tutte. Prima abbiamo affittato un acro di terreno, gli abbiamo comprato le sementi e gli abbiamo procurato una camera dove dormire. Veniva settimanalmente a prendersi il cibo qui in comunita’. Pero’ anche questo fu un fallimento: il primo anno ci fu “El Nino”, e, a causa della alluvione, Peter non raccolse nulla. L’anno seguente ci fu la siccita’ e di nuovo non ci fu raccolto. Anche io davo segni di insofferenza nei confronti di quello che sempre piu’ mi sembrava un parassita desideroso solo di non impegnarsi per il futuro e di succhiare da noi quanti piu’ soldi possibile.
Fu in un momento di profonda crisi che mi venne in mente anche per lui l’HURUMA CENTER. Chiesi aiuto al responsabile che si dimostro’ subito interessato, anche perche’ avremmo continuato a coprire tutte le spese relative al mantenimento del ragazzo. Ma anche li’ la “luna di miele” fu breve: Peter inizio’ a picchiare i bambini piu’ piccoli e a ritornare ai soliti comportamenti antisociali. Eravamo da capo. Il responsabile mi disse che il ragazzo doveva lasciare il centro perche’ non sapeva stare in comunita’. Che fare adesso?
Ultimo disperato tentativo fu una scuola professionale: mi consigliai con alcuni membri della comunita’ locale che mi indicarono un istituto professionale per falegnami che lo avrebbe accolto nonostante i risultati disastrosi ottenuti nell’esame finale della “primary school”. Peter sarebbe stato uno allievo interno, cioe’ avrebbe mangiato e dormito in quella struttura, mentre durante le vacanze sarebbe stato ospitato da un’altra famiglia di Chaaria. Questa volta le cose pero’ andarono molto meglio: dopo i primi mesi svogliati, il giovane comincio’ ad amare la sua professione e con mia sorpresa ha terminato gli studi senza grossi problemi.
Dopo la scuola ci fu il momento delicate del “taglio del cordone ombelicale”: naturalmente Peter diceva che era difficile trovare lavoro, che avrebbe sempre avuto bisogno del mio sostegno economico per pagarsi il cibo e l’affitto della stanza. Io pero’ presi una decisione ferrea: dare a Peter tutti i soldi che ancora avevo dai benefattori, e poi dirgli: “aggiustati!”
Fu dura all’inizio mandarlo via quando tornava piangendo e mi diceva che non aveva piu’ denaro, ne’ vettovaglie… ma non volli farmi prendere dal facile “buonismo”; la mia risposta era sempre la stessa: “hai un diploma, hai la salute e sei giovane. Devi camminare con le tue gambe”.
Ora Peter lavora in una piccola impresa a gestione familiare che fa mobili per la gente di Chaaria. E’ uno dei tanti progetti di micro-finanza che sono nati sull’onda del benessere che l’ospedale ha portato alla zona. Si tratta di una piccolissima impresa con 3 operai di cui Peter e’ il piu’ giovane. Ora mi saluta felice, ha una bicicletta: e’ vestito bene ed e’ sempre pulito.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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