domenica 17 maggio 2015

I ragazzi di strada (prima parte)

A Meru li incontri spessissimo; circondano la macchina appena ti fermi ad un incrocio.
Hanno tra i denti l’inseparabile bottiglietta di plastica sul cui fondo c’è un po’ di colla che essi sniffano per non sentire i crampi della fame.
Sono scalzi, stracciati, quasi sempre vestiti con abiti molto più grandi della loro taglia. Sono in genere giovanissimi, dai 7 ai 12-13 anni. Se li guardi con attenzione, ti accorgi che nelle loro “gang” ci sono anche ragazze, vestite alla maschietto per coprire la loro identità.
Si accalcano al finestrino; premono la loro faccia contro il vetro, quasi ricordandomi anche fisicamente la barriera che ci separa: io dentro l’automobile e loro fuori, scalzi, stracciati ed affamati.
Dar loro degli spiccioli perchè si comprino del pane è sempre un’operazione pericolosa: appena metti la mano fuori dal finestrino, ti saltano addosso nella disperata lotta per accaparrarsi il poco denaro; più volte ho rischiato una frattura, quando tutti mi tiravano l’arto qua e là.
Ma il problema continua anche dopo che si soldi li hanno presi, perchè si azzuffano tra di loro per accaparrarsi il bottino. Spesso poi hanno un capobanda che alla fine, dopo tutte quelle botte, si prenderà la moneta.
Da tempo ho deciso di non dare più soldi, ma di passare al supermercato e di acquistare del pane che poi cerco di distribuire... senza lasciare che mi causino una frattura.
Mi sono sempre chiesto come sopravvivano: la loro è una vita di stenti e di espedienti. Al mattino presto li puoi vedere al mercato generale di Meru, intenti a spingere carretti pieni di frutta e verdura. 



Lo fanno per pochi scellini che poi usano per comprarsi qualcosa da mangiare oppure per rifornirsi di colla. Alla sera li puoi vedere nelle varie discariche che circondano la città: anche lì cercano delle cose da poter vendere (ferro vecchio, stracci, ecc); spesso raccolgono in grandi sacchi di juta i contenitori vuoti del latte, perchè dicono che si vendono ad un prezzo decente.
Altra zona tipica in cui incontrarli è nei pressi dei ristoranti, dove sperano di avere dai gestori gli scarti che i clienti lasciano nel piatto.
Appena fuori Meru, tornando verso Chaaria, c’è il torrenta Kathita: pure questa è una zona che essi amano molto frequentare e nei pomeriggi caldi li puoi scorgere in grossi gruppi intenti a fare il bagno ed a giocare con l’acqua.
E dove dormono? E’ difficile dirlo, ma capita di vedere gruppi di ragazzi dormine nelle aiuole spartitraffico o sotto le tettoie dei mercati generali. Anche la stazione dei matatu è un posto dove essi si rifugiano di notte.
Ma chi sono i ragazzi di strada?
Sono normalmente orfani, ragazzi rimasti soli al mondo o a causa dell’AIDS oppure per altre storie tristi. Altre volte hanno alle spalle esperienze pesanti di abbandono familiare.
In questi anni abbiamo tentato di aiutarli in vari modi. Abbiamo organizzato giornate della salute per loro; ci siamo recati a Meru ed abbiamo offerto visite mediche e terapie assolutamente gratuite. Abbiamo organizzato dei pasti presso qualche ristorante della città. Abbiamo inoltre offerto cure odontoiatriche, doccia e cambio dei vestiti a gruppi di ragazzi che invitavamo a Chaaria.
Per un buon numero di loro abbiamo trovato un posto per vivere in una comunità che li ospita a Mujwa. L’inserimento in comunità ha cambiato la vita di tanti... purtroppo però molti sono caratteriali e dalla comunità fuggono in fretta perchè non amano alcun tipo di disciplina e preferiscono la vita di strada.
Ad alcuni abbiamo trovato un lavoro, ed è bellissimo quando ora li incontriamo e ci salutano pieni di riconoscenza.
(fine prima parte)


Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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