mercoledì 27 maggio 2015

Malaria assassina

Abbiamo ricoverato un bambino dell’eta’ di circa 9 anni: il test della malaria era positivo ad alta densita’. 
Il piccolo paziente era profondamente comatoso, non risvegliabile neppure attraverso stimoli dolorosi intensi. 
Era agitato: gli occhi aperti si muovevano a velocita’ notevole rincorrendo qualche incubo di cui non sapremo mai nulla. Di tanto in tanto il suo corpo emaciato veniva scosso da violente convulsioni.
Iniziamo subito il chinino, ma ci rendiamo conto che il bambino e’ gravemente ipoglicemico: vuoi per il coma che dura da alcune ore, vuoi per il digiuno, vuoi per la malaria stessa. Sospendiamo quindi questo farmaco che puo’ peggiorare l’ipoglicemia, e ci affidiamo alle artemisine in muscolo. 
Tentiamo di riportare in range il suo glucosio ematico, ma risulta quasi impossibile: la macchinetta ci dice 10 mg/dl. Facciamo dosi da cavallo di destrosio al 50% in vena, ma i valori non salgono. 



Infondiamo anche del cortisone sperando che anche questo innalzi un po’ i livelli di zucchero nel sangue, ma il destrostick e’ implacabile: la glicemia non sale sopra i 20 mg/dl.
Inseriamo un sondino nasogastrico e somministriamo pappette zuccherate, ma l’ipoglicemia e’ costante ed il piccolo Douglas ci sfugge dalle mani e va in Paradiso. Anche questa volta ha vinto l’anofele: la mamma e’ disperata, e io mi siedo sul letto vicino al corpo senza vita del bambino, senza dire una parola.


Fr Beppe

1 commento:

Anonimo ha detto...

"Grazie Beppe per questa testimonianza... a Chaaria come qui come in moltissimi altri luoghi nel mondo la malaria uccide i bambini. Noi ce l'abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni, ma dove la malaria non c'è...non ci si pensa. Ho visto piangere troppe mamme..."
Federica Dassoni dal sud Sudan


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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