lunedì 24 agosto 2015

Alla Domenica

La mattinata era stata abbastanza tranquilla e dopo la Messa eravamo riusciti a visitare tutti I pazienti operati in settimana ed a dimetterne un buon numero.
Dopo le due del pomeriggio l’ospedale era stranamente calmo, con pochi pazienti ambulatoriali, nessuna mamma in travaglio e nessuna emergenza all’orizzonte. Sono quindi riuscito a riposare un po’ ed a farmi anche una bella dormita.
Poi però alle 17.45 vengo chiamato dall’infermiere dell’ambulatorio, che appare abbastanza scosso e preoccupato.
“E’ successo un incidente stradale. Si tratta del solito mototaxi troppo carico di passeggeri. Ci sono due feriti: uno è in condizioni discrete, ma l’altro è davvero malmesso”.
La scena che mi trovo davanti è tremenda: nella stanza c’è sangue ovunque; il paziente giace sulla barella; è ancora tutto imbrattato di terra ed urla di dolore chiedendo dei calmanti.
Ci sono ferite in varie parti del corpo,soprattutto al lato destro del corpo; ci sono tagli sul viso, sulla mano, sulla gamba e sul piede.
Ma la cosa che preoccupa di più sono le fratture: siamo di fronte ad un politrauma con entrambi gli arti inferiori spezzati in più frammenti, con una frattura dell’estremo prossimale dell’omero ed un’altra del bacino.



Il paziente è anche ipoteso e dobbiamo rianimarlo con liquidi in vena.
L’eco addome fatta d’urgenza  sembra escludere che ci siano emorragie interne o rotture di organi.
Con estrema fatica, soprattutto a causa del dolore che gli causiamo ad ogni movimento, eseguiamo le indagini radiologiche usando il fluoroscopio della sala: impossibile trasportarlo a Meru in quelle condizioni, e poi i servizi radiologici a cui normalmente ci rivolgiamo sono chiuse di domenica.
Per riuscirci dobbiamo ricorrere ad un anestetico: anche la morfina infatti non è stata sufficiente.
Dopo esserci chiariti con le lastre la tremenda situazione ortopedica del nostro paziente (ci vorranno forse 6-7 ore di intervento per fissare con placche e viti le varie ossa rotte), ci mettiamo al lavoro: dapprima suturiamo le ferite sanguinanti, quindi ci dedichiamo alla mano destra, dove c’è un tendine sezionato.
Procediamo poi alle fratture. Facciamo però in tempo ad occuparci solo di quella dell’omero, prima che le condizioni generali del nostro malato inizino a precipitare vertiginosamente.
Non capiamo che cosa stia succedendo: la pressione cala ed il polso si fa via via più flebile; il respiro diventa superficiale e bisogna intubare il malato ed affidarsi al respiratore.
L’anestesista ci dice di continuare con il nostro lavoro, mentre lui avrebbe tentato in tutti i modi di stabilizzre le condizioni generali.
Che strano – penso io mentre lavoro -le ferite non sanginano più, l’emocromo non rivela un’anemia importante, l’eco addome è negativo.
Sarà una emorragia cerebrale?
Il trauma cranico c’è stato eccome: lo abbiamo suturato anche sulla faccia. Chissà che botta ha preso sul cranio.
Lavoriamo con il cuore sempre più pesante perchè il monitor, con il suo continuo bip-bip, ci informa che il nostro cliente sta andando in bradicardia spinta.
L’anestesista si affatica e fa tutto quello che può, ma i battiti cardiaci si rarefanno costantemente, finchè, ad un certo punto, dal monitor non esce più quel rassicurante suono ritmico del battito cardiaco, ma solo un allarme angoscioso, accompagnato dalla scritta: asistolia.
Lasciamo la ferita e ci buttiamo nel massaggio cardiaco: andiamo avanti per venti minuti, ma il cuore non riparte. Siamo stremati, ma soprattutto costernati e tristi.
Abbiamo perso questo paziente: d’accordo, il politrauma era in effetti gravissimo, ma onestamente avevo sperato di sistemare tutte quelle fratture e di salvargli la vita...ma non ci sono riuscito.
Sarà dura dirlo ai parenti che sono fuori ed aspettano notizie.


Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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