martedì 6 ottobre 2015

Emorragia post-partum

Sono le tre del pomeriggio e vengo chiamato in sala parto perchè una primipara, dopo aver progredito bene con il travaglio fino alla completa dilatazione della cervice, poi perde le contrazioni: non ha più male, non sente spinte e la discesa della testa si arresta.
Vorrei provare con il forcipe a far nascere il bambino, ma la testa è ancora troppo alta. Non mi sembra il caso di eseguire un cesareo perchè il bimbo non è troppo grande ed il canale del parto è ampio ed adeguato.
Decido quindi per l'induzione del parto con ossitocina: in effetti con essa le contrazioni riprendono violente, anche se la mamma è esausta ed a volte non ce la fa più a dare spinte vigorose.
Aiuto con la ventosa ostetrica ed il bimbo viene alla luce senza grossi problemi.
Non mi occupo del secondamento perchè di solito lo fanno le infermiere e vado invece in sala operatoria, dove mi aspetta un tumore della vescica.
La placenta viene fuori bene, ma dopo questo atto finale del parto inizia un'emorragia torrenziale: io sono "lavato" per l'intervento sulla vescica e non mi posso muovere; interviene quindi la dottoressa Khadija: giustamente essa prescrive alte dosi di ossitocina per incoraggiare la contrazione di un utero probabilmente atonico, ma la cosa non sortisce l'effetto desiderato. 


Passa quindi alla rimozione manuale dei coaguli dalla cavità uterina, ma anche dopo tale procedura il fiume di sangue non tende a ridursi. Intanto la mamma si fa via via più shoccata e bisogna ricorrere a plasma expanders per rianimarla, nella totale mancanza di sacche di sangue. In ospedale infatti non ne abbiamo neppure una goccia di sangue da trasfondere!
La dottoressa, sempre più preoccupata e tesa, fa prima un raschiamento, anch'esso poco efficace, e quindi va alla ricerca di una possibile lacerazione cervicale, che comunque non c'è. Il sangue viene quindi dall'interno!
Disperata, essa tampona l'utero ed aspetta che io esca di sala.
La mamma dorme serena sotto gli effetti della ketamina di Jesse, e la sua pressione pare tendere più a scendere.
Arrivato io, dopo un'analisi veloce della situazione e delle terapie già eseguite, decido che la prima cosa da fare era svuotare la vescica di quella donna, per favorire la contrazione dell'utero: poi faccio un secondo raschiamento. 
So infatti che i giovani medici hanno tantissima paura di perforare l'utero quando fanno una revisione di cavità nel post-partum, e quindi penso che forse la dottoressa era stata troppo gentile e magari c'erano in utero dei prodotti di concepimento ritenuti che essa non era riuscita a rimuovere. So anche che un utero non completamente vuoto non si contrae a fondo e che quindi l'emorragia non si ferma mai.
Agisco con una certa energia e riesco ad estrarre pezzi di placenta che erano rimasti dentro: dopo tale raschiamento, come per un miracolo, il fiume ematico si arresta quasi subito, lasciando solo una normale lochiazione.
La donna dorme ed è tachicardica: ha davvero perso molto sangue. Però è calda e non ci sono sudorazioni fredde od altri segni di schock.
Nelle sue vene ancora scorrono delle soluzioni elettrolitiche con alte concentrazioni di ossitocina: generalmente comunque penso che essa sia fuori pericolo e che presto potrà allattare la sua bambina.
Certo, non avere sangue da trasfondere è un dramma, ma lei è giovane e forte, ed avendo ora fermato l'emorragia acuta, crediamo che si riprenderà molto in fretta.
Ci sono stati comunque momenti molto tesi in cui abbiamo davvero temuto di perderla: l'emorragia post-partum è veramente un'emegenza terrificante in cui si può vedere una mamma spegnersi rapidamente davanti ai tuoi occhi. Fortunatamente oggi non è successo.

fr Beppe


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Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

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Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

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Fratel Beppe Gaido


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