giovedì 29 ottobre 2015

Le incognite della notte

Sono stato chiamato di notte per una consulenza in maternità.
Eunice non sa ancora se si tratterà di un parto con ventosa ostertica o se si dovrà optare per il cesareo.
Per questa ragione non chiamo ancora nessuno e mi dirigo in sala parto da solo.
La testa del nascituro quasi fa capolino e mi pare onesto tentare la ventosa. Ci provo tre volte, ma senza successo. Mi sento depresso per questo fallimento.
La mamma è esausta e dal canale del parto esce un meconio verde, denso e poco rassicurante. Anche il battito cardiaco fetale non è dei migliori.
Ecco perchè mi arrendo e decido di andare in sala: il cesareo è infatti l'unica soluzione per salvare il bimbo.
Prepariamo la mamma per l'operazione e la trasportiamo in camera operatoria.
A questo punto chiamo Giancarlo e gli dico di venire con calma perchè devo fare ancora la spinale.
Di solito ci metto un po' a praticare questa anestesia in donne che hanno travagliato per molte ore: non riescono infatti a stare in posizione a causa del pancione, sono irrequiete ed in continuo movimento.
Con mia sorpresa invece trovo lo spazio giusto al primo colpo e l'anestesia è fatta dopo meno di un minuto.
Sdraio la mamma e comincio a farle le domande di rito per seguire il risalire dell'anestesia dalle gambe fin su, oltre l'ombelico.


Sono tranquillo perchè di solito ci vogliono 8-9 minuti perchè la marcaina risalga al giusto livello per permettere un cesareo indolore.
Ma in medicina nulla è perfettamente matematico e ad ogni regola ci sono decine e decine di eccezioni.
Dopo un minuto infatti la mamma smette di respirare perchè l'anestesia è risalita troppo, e bisogna usare l'ambu per ventilarla. Giancarlo non è ancora arrivato e lo devo fare io.
Il saturimetro già era sceso a zero, ma in pochi secondi il monitor indicava una concentrazione di ossigeno di 100. Non potevo continuare a ventilare. Sicuramente infatti il bambino stava soffrendo e bisognava farlo nascere al più presto.
Mi sono quindi lavato in fretta, ed insieme alla strumentista ho estratto il pupo alla velocità della luce. Miracolosamente piangeva forte e pareva non aver sofferto per la momentanea ipossia creatasi con l'apnea materna.
Nel frattempo era arrivato Giancarlo che subito mi ha detto che la saturazione dell'ossigeno era nuovamente zero e che la donna non respirava.
Ho quindi lasciato la strumentista con il compito che schiacciasse un telo verde sterile sulla breccia operatoria e sono corso ad "ambare" nuovamente: anche stavolta la saturazione è ritornata normale in pochissimi secondi.
Ho quindi lasciato a Giancarlo il compito di ventilare la donna ogni volta che la saturazione fosse scesa al di sotto di 80%.
Mi sono lavato nuovamente, ed ho finito il cesareo in tempi molto brevi, in modo da essere disponibile a Giancarlo in caso di nuova crisi apnoica grave.
Fortunatamente però pian piano la signora si è ripresa, e mentre chiudevamo la cute, la respirazione è ritornata spontanea e normale.
Lei ha ripreso conoscenza ed ha chiesto subito del bambino. L'abbiamo rassicurata che la sua creatura stava bene e che si trattava di una femminuccia.
Le ho anche chiesto che cosa si ricordava di questo intervento: e lei, con un grande sorriso, mi ha risposto che pensa di essersi addormentata quasi subito perchè non ricordava nulla. Poi mi ha ringraziato e mi ha detto che non aveva sentito dolore.
Quando le ho consegnato la sua femminuccia che continuava a strillare a pieni polmoni, mi sono commesso ed ho pensato che in quella notte erano successi già due miracoli a Chaaria: il primo è che la mamma sia ancora viva, ed il secondo che il bimbo non abbia risentito affatto, nè del distress precedente dovuto al travaglio prolungato, nè dell'ipossia verificatasi quando la madre ha cessato di respirare.
A Chaaria non si finisce mai di ringraziare la Provvidenza che sempre ci mette una mano sulla testa e ci protegge anche nei momenti più estremi.

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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