domenica 1 novembre 2015

Visita di don Marco ai missionari del Kenya

Ci scrive don Marco dal Kenya, in occasione della viaggio per accompagnare don Paolo Burdino, sacerdote diocesano che presterà servizio con Fidei Donum, insieme con don Mauro Gaino, già presente a Nairobi, nella comunità di Tassia. Dalla town di Meru, attraverso una strada sterrata che passa in mezzo ai campi arriviamo in poco meno di un'ora a Chaaria dove, dagli anni 80, c'è un ospedale del Cottolengo. 
Ad accogliermi fratel Giancarlo, conosciuto per caso a Torino, e con il quale abbiamo subito combinato l’incontro. 
Mi accompagna nella visita alla struttura. I poveri figli sono ormai 50, molti da una vita intera con loro. Ultimo arrivato un anno fa, una persona già adulta, abbandonata dai parenti nella sala di attesa dell'ospedale, un lunedì all'ora di pranzo, quando la sorveglianza è più difficile. 
Stanno lì, musica che suona e gli rallegra, prendono il sole, camminano. Qualcuno è già al tavolo per il primo turno del pranzo riservato a chi non è autosufficiente. C'è anche una sala nella qual fanno piccoli lavoretti (rosari, collane e un po' tutta l'arte del costruire con perline). La lavanderia piena di vestiti ammucchiati per essere lavati e poi i fili a cui sono appesi quantità di vestiario per asciugare. 


Passiamo poi in ospedale. In una sala,con orgoglio, fr Giancarlo mi mostra l'ultimo acquisto, l'ecografo: "Abbiamo speso 35.000 € perché per i poveri bisogna comprare il meglio". Quindi passiamo dalla pediatria, dove le mamme vengono "ricoverate" insieme ai loro bambini. 
Nella maternità un bambino di 1,1 kg è nell'incubatrice, nutrito col sondino, il fratello mi assicura che "se arrivano al chilo poi sopravvivono". In una saletta ci sono due culle, una sola è occupata, è una bimba la cui mamma è morta nel parto. Starà a Chaaria fino allo svezzamento poi tornerà nella sua famiglia. 
Passiamo quindi al reparto uomini e a quello donne, due grandi stanzoni pieni di letti disposti in quattro file. 
Quindi il blocco operatorio, dove fr Beppe passa molto del suo tempo e dove tanti specialisti arrivano dall'Italia per dare una mano. Infine gli ambulatori per le vaccinazioni dei bambini e quello per la cura dei malati di AIDS. 
Parliamo delle cose della vita quotidiana di un ospedale: il personale, l'acquisto delle medicine, la cucina, l'orto e la stalla per provvedere cibo. La legna per far da mangiare che "dobbiamo calcolare bene prima della stagione delle piogge se no rimaniamo senza". 
E poi l’annoso problema dell'elettricità fornita dall'Enel locale, ma che a volte si interrompe ed allora entrano in azione i generatori. 
Me ne mostra uno vecchissimo che qualcuno ha mandato non molti anni fa va da qualche altra nazione europea, come se ciò che è vecchio da noi vada bene per l'Africa. 
Arriviamo anche al cimitero dove, di notte per non turbare le tradizioni locali, fr Giancarlo seppellisce coloro che nessuno vuole, sopratutto i bambini morti in ospedale. Facciamo anche visita alla tomba di fr Lodovico, il fondatore dell'ospedale la tomba di fr Giovanni bosco, morto per le punture delle api. 
Mentre ci avviciniamo alla sala del pranzo parliamo ancora dell'unico medico mandato dal governo ma che comunque va pagato se no se ne va e non ti mandano più nessuno. Poi a pranzo finalmente l'incontro con fr Beppe il vero cuore dell'ospedale una vita spesa per i malati con turni 24/7. 
A pranzo, fra un intervento programmato ed un parto cesareo che arriva con la frutta, parliamo della sua esperienza. La fatica a far andare avanti una macchina così costosa, ma anche il valore incalcolabile di ogni vita salvata o guarita in questo posto. 
E proprio questo aspetto che comunque la vita e la salute di ogni singolo paziente valgono più di tutto il resto che dá senso ad un'opera come questa. Certo l'interrogativo di che cosa ne sarà nel futuro resta. 
Ma di questo il Signore saprà che fare, per ora salviamo la vita malata. 
Parliamo poi del rapporto con la Chiesa locale, un rapporto faticoso, non sempre di comprensione anche perché: " noi siamo bianchi e abbiamo tanti soldi", e, aggiungo, anche perché ciascuno ha il suo mestiere ed un ospedale lo può gestire chi sa di ospedali non chi, per vocazione, deve fare altro. 
E poi i volontari che vengono dall'Italia. Gli infermieri che qui imparano da quelli locali a fare tante piccole cose di microchirurgia, ma che al personale locale testimoniano silenziosamente il vero lavoro di nursing: l' attenzione e la cura del singolo malato, perché sia sempre pulito, sia girato ogni tanto e tutte quelle altre cose che fan parte dell'attenzione al povero. 
Ad un certo punto fr beppe usa una frase che mi colpisce, "la nostra è l'eresia dell'azione", a qualcuno pare che dietro a tutto questo fare, ad una disponibilità totale per i malati, possa non esserci poi dietro molto, se non il fare per fare. 
In realtà la sensazione è che dietro a questa grande opera non ci può che essere delle grandi anime, anime che nel loro cuore desiderano servire il Signore, desiderano essere segno della sua misericordia. D'altronde il giubileo ha per motto proprio "misericordiosi come il Padre". 
Questa la testimonianza quotidiana, silenziosa e per certi versi nascosta di un ospedale missionario sperso per le colline del Meru. 
Mentre mi avvio all'uscita riguardo questo groviglio di costruzioni concentrate in qualche centinaio di metri quadrati e penso alla vita di questi religiosi che qui, in questo spazio ristretto, vivono un'esistenza intera al servizio dei malati e dei poveri, dove qui in questo spazio congestionato si donano ogni giorno e costruiscono un mondo migliore, con le piccole e insignificanti storie di malattia e spessissimo anche di guarigione che fanno il loro quotidiano. 
Penso anche che la santità non ha bisogno di molto spazio e di efficienza ad ogni costi, ma ha bisogno di cuori che amano e di uomini da amare. 

don Marco Prastaro 
Responsabile Ufficio Missionario ­ Arcidiocesi di Torino






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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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