venerdì 4 dicembre 2015

Alla scuola dei poveri

Un Professore di Medicina Tropicale di Anversa diceva, forse un po’ cinicamente, che per imparare bisogna sempre passare sopra qualche cadavere. Questa affermazione sembra terribile, ma quanto mai veritiera. Una persona si forma soprattutto attraverso brucianti errori, che rimangono così impressi nella mente da non essere più ripetuti.
Purtroppo in Medicina gli sbagli non si riparano facilmente, e a volte conducono addirittura alla morte.
Quando un paziente muore è sempre un’occasione di crisi per me e per i volontari che lavorano a Chaaria. Ci si chiede dove abbiamo sbagliato, che cosa potevamo fare di più o meglio.
Si pensa spesso che un paziente ricoverato in Italia in rianimazione avrebbe potuto ricevere di più, e forse avrebbe potuto essere salvato.
D’altra parte ci si consola dicendo a se stessi che facciamo già tanto e che, pensando a certi dispensari governativi dove non si esegue neppure l’esame della malaria, il nostro è già un livello diagnostico-terapeutico notevole.
Comunque è vero che mancano così tanti strumenti che spesso si brancola nel buio, si fanno ipotesi un po’ campate in aria, e si corre il rischio di una pericolosa routine che ci porta a pensare sempre e solo a 4 o 5 malattie, e a instaurare protocolli di cura sovente miopi e ripetitivi.


Ma gli insegnamenti di cui voglio parlarvi oggi non sono di ordine tecnico, bensì umano e, se vogliamo, spirituale.
Ieri per esempio è morto Bernard, un giovane di circa 30 anni, affetto da una stranissima forma di paralisi progressiva. I problemi erano iniziati alcuni anni prima, con delle sensazioni di stanchezza alle gambe. Poi la situazione era degenerata sempre di più sino a relegarlo a letto in quanto incapace di muovere sia le gambe che le braccia. Era giunto a Chaaria quasi tre mesi fa. Ci eravamo impegnati tantissimo a cercare una causa per quella situazione. Grazie ad Elizabeth eravamo in contatto con la Facoltà di Medicina Tropicale di Anversa: i Professori ci hanno sempre risposto gentilmente e ci hanno portato a una diagnosi probabile: tubercolosi del midollo spinale con paralisi da compressione. La diagnosi ci ha dato nuova speranza. Soprattutto Elizabeth - colei che lo ha seguito di più - era raggiante perché almeno per la TBC disponiamo dei farmaci. Abbiamo dato al giovane la terapia richiesta e l’abbiamo avviato alla fisioterapia. Pian piano i miglioramenti cominciavano a vedersi, e Bernard aveva ripreso a camminare con il girello, anche se con fatica notevole. Lo si vedeva inerpicarsi sulla salita dello scivolo che porta alla palestra, sempre con il sorriso sulla bocca: diceva con soddisfazione che ora poteva stare in piedi nuovamente.
Poi, inaspettatamente, il crollo! L’altro ieri Bernard è caduto e ha cominciato a lamentarsi di forti dolori su tutto il corpo. Lo abbiamo visitato ed abbiamo escluso la possibilità di fratture. Lo abbiamo rassicurato, gli abbiamo dato analgesici, ma lui è diventato irrequieto. Ripeteva la storia della caduta infinite volte, diceva di volere altre iniezioni.
La situazione in room 28 (un camerone che ospita più di 30 pazienti) era diventata molto tesa. Non si riusciva a visitare gli altri perché Bernard urlava; gli altri malati erano nervosi a causa delle grida. La decisione di Elizabeth, da me completamente avallata, è stata quella di dargli un po’ di Valium per rilassarlo: eravamo convinti che il problema fosse d’ordine psicologico, e che la caduta non avesse nulla a che fare con il suo comportamento.
Non più di due ore dopo vengo chiamato urgentemente al capezzale di Bernard e lo trovo in fin di vita, completamente in coma. Aveva “gasping”: dava, cioè, gli ultimi respiri; vomitava abbondantemente sangue dalla bocca. A nulla sono valse le corse, sia mie che di Elizabeth o di Kithinji. Lui ci ha lasciato dopo mezz’ora, facendo precipitare tutti noi in uno stato di profonda frustrazione.
Quello che ci ha lasciati tutti di stucco è il fatto che Bernard continuasse comunque a chiamare e a urlare, anche se a nostro avviso la caduta non poteva aver causato tutto quel dolore. La mia profonda convinzione è che i malati sentano benissimo quando la vita sfugge
loro di mano. Chiamando continuamente forse voleva dirci che la vita lo stava lasciando, ma noi, sempre di corsa non abbiamo saputo dargli retta. Noi siamo tecnicisti e “molecolari” e quindi scientificamente sapevamo che non poteva essere vero che lui avesse così male… ed ancora una volta ci è sfuggito l’aspetto umano di quella richiesta di aiuto. A questo riguardo mi torna in mente il caso di Susan, una malata grave che una sera mi ha preso per il vestito e mi ha trascinato contro il proprio petto continuando a ripetere: “Doctor, I am dying”. Istintivamente terrorizzato da quella mossa ho provato a divincolarmi ma lei è spirata con i pugni chiusi attorno al mio camice. Per me è stato uno shock notevole trovarmi a distanza ravvicinata da quel corpo, non perché abbia paura dei morti, ma perché ho capito che Susan sapeva che erano giunti gli ultimi istanti, e si è avvinghiata a me quasi per non lasciare che la vita le scappasse via.
I malati lo sentono quando stanno morendo, e noi molto spesso siamo troppo distratti per comprenderli.
L’altra grande lezione ricevuta dal povero Bernard è stata una nuova presa di coscienza che non siamo onnipotenti.
Abbiamo davvero fatto tutto quello che potevamo ma, onestamente, non abbiamo capito niente. Eravamo in contatto internet con i professori della scuola di Medicina Tropicale di Anversa; abbiamo usufruito del teleconsulto, ma in fin dei conti tutti provavano solo ad indovinare.
E poi ci mancano così tanti mezzi qui in Africa. Se domandi aiuto in Europa ti chiedono di fare Risonanza, e cose del genere che noi qui neppure possiamo sognarci.
E’ molto dura per un medico ammetterlo, ma casi come quello di Bernard ci aiutano a ridimensionarci, ci indicano chiaramente i limiti della nostra conoscenza e della nostra professionalità; diventano scuola di umiltà.
Altro pugno nello stomaco sull’umiltà lo avevo ricevuto qualche giorno fa. L’infermiera Monica era venuta a chiamarmi per andare a vedere un bambino che stava male. Io le avevo risposto che al momento avevo così tanti pazienti in coda che sarebbe stato opportuno per lei instaurare i protocolli di terapia standard. Io poi sarei andato più tardi a visitare il piccolo. Il fatto è che il giorno mi ha travolto; i malati hanno continuato ad arrivare per molte ore a ritmo incalzante. Quando, a notte fonda, sono andato dall’infermiera di turno a chiedere che mi facesse vedere il bambino grave, la risposta è stata gelida: il piccolo se ne era andato 3 ore prima. Che senso di colpa. Il bambino è forse morto perché io non sono andato a vederlo subito. Adesso non lo rivedrò mai più. In quel momento mi sono rimbombate alle orecchie le parole del Cottolengo: “non fatevi chiamare due volte quando il povero ha bisogno, ma correte come sulle ali della carità al suo servizio”.
Certi sbagli sono irreparabili; non hai più tempo e pensi che talvolta è proprio vero che “gli errori dei medici sono sepolti sotto terra”.
Certo, lavorare in Africa insegna molte cose, soprattutto ci rende consapevoli dei nostri limiti, di quello che non sappiamo, e di quello che avremmo potuto far meglio. Il rullo compressore della quotidiana fatica spesso smaschera elementi bui del nostro carattere: a volte si corre tutto il giorno, cercando di fare del proprio meglio, e poi verso sera, quando le energie sono ormai “in riserva”, si perde il controllo, si diventa nervosi e ci si scarica contro un paziente che ha il solo torto di essere capitato sotto le nostre grinfie nel momento meno opportuno. Anche questi sono comunque momenti utili: all’inizio ci si tormenta nel senso di colpa, si vorrebbe richiamare indietro il malcapitato che invece è già tornato a casa “con la coda tra le gambe”; si corre il rischio dello scoraggiamento, pensando di aver rovinato in un momento quanto costruito durante una faticosa giornata di servizio e di donazione. Poi però la pace del cuore ritorna, e si accetta il fatto che non siamo perfetti ed abbiamo bisogno ogni giorno della misericordia di Dio.
Dio sceglie gente imperfetta e limitata per portare il suo messaggio di liberazione; ci vuole bene e ci accetta così come siamo, e desidera da noi solo lo sforzo per fare del nostro meglio. Poi tutto il resto lo porta a compimento Lui. Noi siamo degli strumenti molto imperfetti della sua Provvidenza, e la presa di coscienza di questa nostra condizione ci aiuta ad andare avanti, resistendo sia alla tentazione dello scoraggiamento, sia a quella di sentirci superuomini capaci di risolvere tutti i problemi.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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