domenica 6 dicembre 2015

Non riesco neppure ad immaginare il suo dolore

La sonda scorre veloce sull’addome globoso di Nancy. La sua pancia a montagnola mi dice chiaramente che questa paziente ha raggiunto il termine della sua ‘attesa’.
Pero’ non ha dolori, e da un paio di giorni sostiene di non sentire piu’ le capriole ed i dolci ‘scalciamenti’ del nacituro.
Il mio duro compito e’ quello di dirle se il suo bimbo sta bene!
Passo e ripasso il mio strumento sulla zona dove mi attendo di trovare il cuoricino pulsante, ma non vedo alcuna attivita’. Prolungo la mia osservazione, nella speranza di notare un cambiamento di posizione, una manina che si sposti, un piedino che si muova impercettibilmente... ma nulla!
Mi auguro che sia solo un’ illusione ottica, e faccio scivolare la sonda in modo maniacale su quella pancia, quasi a volermi convincere che cio’ di cui sono ormai sicuro non sia altro che una menzogna.
Passano minuti eterni in cui continuo ad armeggiare l’ecografo senza piu’ neanche concentrarmi sul monitor.
E’ una specie di balletto in cui mi destreggio, cercando di prendere tempo e di studiarmi le parole da usare con questa giovanissima mamma che ha in corpo un feto morto... un feto che fino a ieri le saltava in grembo ed evidentemente stava bene.



E’ sempre durissima affrontare un tale argomento, soprattutto quando il disastro capita a termine di gravidanza: nove mesi di attesa, di speranze, di sogni e progetti che immediatamente verranno vanificati dalle mie parole che di colpo apriranno un altro scenario: l’attesa e’ stata inutile; non sarai mamma; non avrai le notti disturbate dal vagito di tuo figlio affamato o ‘bagnato’; le tue notti saranno insonni solo a causa dei tuoi incubi e dell’angoscia che ti accompagnera’ a lungo per la perdita di quel bambino su cui avevi tanto investito emotivamente.
Divago un attimo pensando a me stesso: a quanto sia doloroso per me quando, dopo aver lavorato per qualche ora al computer, mi capita che una interruzione di corrente od un virus mi faccian perdere il documento su cui non avevo speso che poche ore.
Se sto cosi’ male io per una ragione in se’ cosi’ poco importante, chissa’ cosa significa per Nancy accettare le parole che le sto per dire e fronteggiare un lutto cosi’ immenso.
Eppure non mi posso schernire. Lei e’ venuta da me perche’ vuole sapere... ed ha il diritto alla verita’. Non dirgliela potrebbe significare che il feto andrebbe in putrefazione mentre ancora e’ ritenuto in utero; il mio silenzio potrebbe causare danni alla salute della mamma, e forse anche la sua morte.
Non posso tacere. Devo farmi coraggio.
Negare la verita’ al paziente spesso non e’ una forma di pieta’, ma di codardia. Il mio dovere e’ quello di salvare la vita di Nancy, anche se la natura ha voluto darle questo enorme dolore da portare in cuore.
Lo so che piangera’ disperatamente. Devo essere pronto anche a questo!
Ma ho il dovere assoluto di convincerla a sottoporsi alle terapie del caso, in modo che il corpicino senza vita possa esserle estratto e lei possa riguadagnare il suo pieno stato di salute.
Che brutta questa parte del lavoro del medico!
Mi faccio coraggio... trangugio un po’ di saliva. Fisso il mio sguardo su un punto lontano nella stanza semibuia; mi schiarisco la voce ripetutamente, e cerco di proferire parole che piu’ volte mi si bloccano in gola, permettendomi solo di emettere strani suoni gutturali... poi finalmente ci riesco, ed e’ come un’esplosione; e’ come se dovessi liberarmi subito di quel segreto che non potevo piu’ trattenere:
“Mamy, il battito cardiaco non c’e’ piu’. Il tuo bimbo e’ morto!”
Nancy guarda il soffitto; le lacrime escono copiose dai suoi occhi, ma il suo pianto e’ muto. Si gira sul fianco di colpo, e si copre la faccia con entrambe le mani: all’improvviso i singhiozzi esplodono come un ordigno nucleare. Nancy urla e si dispera.
E’ davvero inconsolabile.
Io sto in silenzio, ma non vado via. Le metto una mano sulla spalla per dirle la mia vicinanza.
Non diro’ parole inutili e vuote. Le frasi di circostanza fanno sempre e solo danni. Staro’ semplicemente qui per tutto il tempo che le sara’ necessario... e poi la ascoltero’ se mi vorra’ parlare.


Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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