lunedì 7 dicembre 2015

Uccisi dall’ignoranza piu’ che dalla poverta’

Ieri sera ho assistito ad una scena che e’ riuscita a bloccarmi la digestione ed a lasciarmi totalmente depresso per la notte intera.
Erano le 22 quando ho sentito un vociare concitato in ambulatorio.
C’erano molte donne che urlavano e qualcuna piangeva disperatamente.
Ho visto entrare la barella spinta dal nostro watchman.
Su di essa ho visto il corpo senza vita di una donna giovane… era tutta imbrattata di sangue. Ho immediatamente messo mano al fonendoscopio ed ho quindi confermato che la paziente era gia’ morta prima dell’ingresso in ospedale.
Solo a quel punto una delle accompagnatrici in pianto mi ha fatto vedere quello che teneva in braccio, avvolto in una copertina insanguinata. Era un neonato. Quasi senza avvedermene, ho messo il dorso della mia mano sul torace del piccolo e l’ho trovato gelido. Ho guardato meglio ed ho constatato che non c’era attivita’ respiratoria.
Ho quindi posato il mio stetoscopio sul piccolo, ma non ho riscontrato attivita’ cardiaca.
“Cosa e’ successo?” ho quindi domandato, lanciando il mio interrogative a quella piccola folla di donne sotto shock.
“Karwirwa (questo e’ il suo nome) e’ di Giaki. Sapeva di aver avuto un pregresso cesareo due anni prima. Suo marito, che lavora lontano, le aveva anche lasciato i soldi per venire all’ospedale, ma lei ha voluto provare a partorire a casa. 
Lei e le sue vicine di casa hanno provato da stamattina, ma il bimbo non voleva nascere. Stasera si sono decise a venire in ospedale, ed hanno scelto di camminare… ma a tre chilometri da qui, Karwirwa ha avuto delle forti contrazioni ed il piccolo e’ nato. 


Purtroppo non respirava bene, forse perche’ la mamma era stata in travaglio per troppe ore. Noi non sapevamo come aiutare il bambino, che e’ spirato tra le nostre mani dopo pochi minuti.
Qualcuno ha insistito dicendo che, avendo gia’ partorito, Karwirwa avrebbe dovuto tornare a casa dopo il secondamento della placenta. Ma le cose sono andate di male in peggio: dopo aver espulso la placenta, la mamma ha cominciato a sanguinare profusamente. In un attimo e’ diventata troppo debole per camminare. Abbiamo cercato un matatu disperatamente, ma il tempo necessario perche’ arrivasse una macchina e’ stato troppo lungo. Una volta caricata sull’auto, Karwirwa ha solo dato gli ultimi respiri sotto I nostri sguardi attoniti ed impotenti.
Avevamo un bimbo morto tra le braccia e stavamo assistendo alla dipartita della mamma, senza che potessimo farci nulla.
Il matatu era scassato e ci ha messo un po’ di tempo ad arrivare: lo sapevamo che anche la mamma era morta, quando siamo entrate in ospedale”
Sono profondamente addolorato da quanto e’ successo. Giaki e’ a 4 chilometri da Chaaria. Karwirwa sapeva di aver avuto un cesareo pregresso ed era stata informata dei rischi correlati ad un tentativo di parto. Nonostatnte questo, non solo non e’ venuta per il cesareo, ma nemmeno per un parto sotto diretto controllo medico. Il pensiero e’ sempre quello di risparmiare quei quattro soldi che chiediamo... e siamo l’ospedale piu’ a buon prezzo!

Fr Beppe


1 commento:

Unknown ha detto...

emozionante ma orribile storia di una gravidanza che doveva portare la vita e ha portato la morte di due esseri umani.Con un piccolo sforzo di pochi euro, noi volontari e benefattori non potremmo forse provare a liberare Beppe dalla necessità di chiedere alle partorienti anche pochi scellini, liberando loro dal disperato bisogno di risparmiare e dalla conseguente paura di andare in Ospedale ? Forse.Forse tragedie come questa potrebbero essere evitate con un piccolo fondo dedicato. Chiedo perdono per l'intromissione, conscio di essere solo un modesto chirurgo e di non essere mai stato un buon organizzatore e tanto meno un oculato amministratore.
pietro


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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