giovedì 21 gennaio 2016

Il linguaggio dei gesti

Sono arrivati da Marsabit, portandomi la figlia diciottenne.
Nessuno di loro parla Kiswahili, ma solo il Rendille.
La ragazza ha una grossa massa al seno di destra: considerato che ha solo diciotto anni, speriamo che non sia maligna, ma è in effetti così grossa che l'istologico lo faremo per sicurezza.
In qualche modo riusciamo a comunicare con questi genitori: il linguaggio dei gesti è quello che ci aiuta di più.
Decidiamo che la mamma sarà ricoverata insieme alla sua ragazza per aiutarla nel post-operatorio, mentre il papà (che qualche parola di Kiswahili la conosce) dormirà in un alberghetto vicino all'ospedale, in caso avessimo bisogno di lui per comunicare con le sue donne.
Prepariamo la ragazza per l'intervento.
E' un peccato doverle chiedere di sacrificare le collane che ha al collo: sappiamo infatti che per una donna Rendille queste collane rappresentano molto, che ogni anno se ne aggiunge un giro e che non si devono togliere per tutta la vita. Ma la loro dimensione ed il fatto che in effetti sono impolverate e sporche, controindicano in modo assoluto di lasciargliele al collo durante l'intervento in sala.
Programmiamo un'operazione di tipo conservativo, in cui rimuovere il tumore e lasciare quanta più mammella possibile, in modo da non creare deturpazioni estetiche troppo gravi in una giovane donna da poco sposata.


Credo che poi alla fine ci siamo riusciti piuttosto bene, ed il risultato estetico finale ci pare decisamente buono.
Uscito dalla sala, a gesti cerco di comunicare ai genitori che è andato tutto bene: essi capiscono il mio messaggio soprattutto vedendomi sorridente e rilassato. Non credo abbiamo compreso una sola parola di ciò che ho detto loro.
La mamma, a cui invece abbiamo lasciato sia il girocollo che tutti i braccialetti e le cavigliere, sorride contenta, nella divisa ospedaliera che addosso un po' le stona.
Anche il padre è veramente sollevato; non so se mi capisce, ma mi abbraccia e mi ripete sempre la stessa parola Kiswahili: "rafiki, rafiki" (amico, amico).
Forse è un modo per dirmi grazie.
Sono così contenti che non hanno remore a farsi fare una foto insieme a noi: è un bel momento ed un bel quadretto di integrazione culturale che a Chaaria è un dato di fatto ogni giorno.
Chaaria, crocevia di culture e tradizioni differenti.
Chaaria, luogo di incontro delle persone più disparate, sia tra i pazienti che tra coloro che li servono.
Chaaria, una Babele di lingue a volte incomprensibili, dove spesso l'unico linguaggio che tutti unisce è il servizio amorevole.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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