sabato 9 gennaio 2016

Ma che testona questa mamma!

Sono nel mio studio e, con la lingua fuori, cerco di ascoltare per l’ennesima volta gli stessi racconti riferiti a dolori vari, sparsi su un corpo provato dalla malattia. Sono cosi’ stanco che quasi non riesco piu’ a capire il Kiswahili; se poi provo a parlarlo, e’ come se la lingua mi si gonfiasse in bocca ed il cervello annaspasse nelle sabbie mobili. Per questo chiedo a Makena di stare con me e di interrogare lei i pazienti.
Ad un certo punto sento bussare alla porta: “Karibu”, rispondo quasi come un automa. Judith fa capolino con uno sguardo malizioso, senza mettere piede in room 17; poi con un sorriso sarcastico mi dice: “abbiamo un problema!”.
Immediatamente io le rispondo che di problemi ce ne sono sicuramente tanti. Judith riparte dicendo: “questo pero’ non so come risolverlo. Ho una gravida con una presentazione podalica. Il piede del bambino e’ completamente fuori. Lo si puo’ vedere anche quando la mamma cammina. La paziente rifiuta il cesareo perche’ dice che ha sempre dato alla luce normalmente, e quindi dovra’ essere cosi’ anche questa volta”. “E perche’ non la fai partorire? Non e’ la prima volta che seguiamo un podalico!”
“Non e’ cosi’ semplice. La cervice non si dilata. Sono 5 cm da molte ore, ma la donna non vuole sentire ragioni”. Chiedo allora un po’ di tempo per terminare la visita della malcapitata paziente ambulatoriale che ha ascoltato tutto questo dramma, mentre le facevo una ecografia ostetrica.



Mi reco quindi in sala parto e tento di convincere la futura mamma, ma anche a me lei oppone un rifiuto sprezzante. Decido quindi di darle un po’ di ore per continuare il suo travaglio. Il battito cardiaco fetale infatti sembra buono.
Passano le ore. Intanto un’altra gravida ha complicazioni ed entriamo in sala operatoria verso le 19.30. Il cesareo non si presenta problematico e tiriamo fuori una bellissima bambina che piange fortissimo e fa la pipi’ quando ancora e’ tra le mani del chirurgo. Neanche questa visione serve a cambiare la posizione di Monicah, che dice di voler attendere il marito prima di decidere. Io allora le chiedo quando sarebbe venuto il coniuge tanto atteso. La risposta mi raggela: “arrivera’ da Mombasa domani entro le ore 14”.
“Questa e’ una pazzia. Non puoi aspettare fino a domani”. Intanto l’infermiera della notte mi avverte che il battito cardiaco fetale sta diventando irregolare e la cervice continua a non dilatarsi.
Sono ormai quasi le ore 21.30. Sono disperato e non so cosa fare. Se ascolto la donna, sicuramente verro’ chiamato durante la notte a tirare fuori un feto morto. Eppure non posso forzare la madre ad andare in sala, se lei non firma. Ma forse la paziente non ha gli strumenti tecnici per capire il rischio a cui inutilmente sta esponendo quella creatura che si e’ portata in grembo per nove mesi.
Semplicemente non capisce. Non posso credere che una madre voglia ad occhi aperti far morire il suo piccolo.
“A mali estremi, estremi rimedi” sussurro a Kathure.
“Prendi la donna sotto braccio, dalle i vestiti di casa e portala oltre il cancello. Dille che non voglio i suoi soldi, e le restituisco anche la piccola caparra che mi aveva pagato. Semplicemente io mi dissocio da questo infanticidio inutile”. Kathure spiega tutto con voce pacata e determinata nello stesso tempo.
“Se devi uccidere tuo figlio, fallo al di fuori di questo ospedale”. Naturalmente non ho alcuna intenzione di mandarla via davvero. Voglio solo spaventarla. “Se poi anche questa tecnica dovesse fallire – penso tra me e me – la richiamo dentro e le faccio una anestesia generale anche senza il suo permesso. E’ un rischio, ma sono disponibile a correrlo, per salvare quel feto”.
Kathure accompagna la donna al portone e la chiude fuori, lasciando pero’ ai guardiani il compito di vegliare su di lei e non lasciarla allontanare troppo. Nel frattempo penso di andare a mangiare un
boccone.
La donna e’ abbastanza cocciuta, ma entro le 22.30 decide di rientrare. Adesso e’ mansueta come un agnellino. Accetta subito il cesareo, e con sorpresa vedo che la sua firma non e’ altro che l’impronta digitale del pollice destro: questo spiega molte cose.
“Che brutto non essere mai andato a scuola! Che grande dono e’ l’istruzione”, rimugino nel mio cuore ormai assonnato.
“Andiamo subito in sala!!”
Fortunatamente il cesareo fila liscio come l’olio, nonostante l’assenza di Jesse.
Alle 23.45 estraiamo dal grembo di Monicah un bel maschione che, nonostante il nostro tergiversare, piange subito e forte.

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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