venerdì 10 giugno 2016

Giornate difficili

Mancare alcuni giorni da Chaaria è sempre un'esperienza bella ed entusiasmante per le persone che incontri, ma il peso del lavoro arretrato quando ritorni è davvero massacrante.
Stavolta poi la Dottoressa Khadija mi ha appena aspettato per darmi le consegne ed è andata in ferie.
Mi sono ritrovato da solo, con un carico di appuntamenti, di ecografie e gastroscopie davvero impressionante.
Non mi sembra di esagerare se dico che è una attività che toglie il respiro: si inizia prestissimo e si finisce veramente tardi (ieri la seduta operatoria è incominciata alle 6.30 del mattino ed è terminata alle 22.30 con un raschiamento urgente).
Difficilissimo è bilanciare tra attività chirurgica, ambulatorio e problematiche di reparto.
Mi viene sempre in mente il paragone della cavalletta; sì, mi sento proprio come una cavalletta. La giornata è un continuo saltare dal tavolo operatorio, al gastroscopio, al reparto, all'ascolto di un malato che ti espone i suoi mali, alla sala parto dove qualche mamma ha problemi a partorire. Salti e cerchi di dare sempre il meglio di te, anche quando sei sfinito.
Le pause pranzo sono brevissime e poi si deve ritornare nella bolgia, per tentare di finire la coda dei malati entro sera.
Purtroppo finora ho sempre lavorato in "overbooking": ho così tanti pazienti ricoverati per intervento che non ce la faccio a smaltire la lista di attesa...alcuni attendono vari giorni prima di entrare in sala.
Faccio sempre delle liste operatorie generose ed ottimiste, sperando riuscire a finirle; ma poi capita sovente l'emergenza o l'intervento complicato che dura più del previsto, e quindi qualcuno della lista salta all'indomani.


Posticipare un'operazione è per me una sconfitta e per il malato una bruttissima notizia, visto che è rimasto digiuno tutto il giorno e pieno di tensione e paura.
A poco valgono per consolarlo le mie rassicurazioni che sarà il primo nella lista del giorno seguente: tutti a Chaaria sanno che basta un'emergenza e primo della lista non lo sei già più.
Indubbiamente mi sembra di fare tanto, sia in ambulatorio, che in reparto, come anche in sala: alla sera sempre riesco sempre a vedere tutti i pazienti ambulatoriali, ma quello che ricevo in cambio non è il grazie per il sacrificio che ho fatto nel visitarli anche se ero stremato e se era ormai tardissimo; al contrario, mi devo sorbire lamentazioni da parte dei pazienti che dicono di aver aspettato sin dal mattino.
In sala mediamente facciamo 8 o 9 operazioni, ma chi è operato ha troppo male per dirti grazie: sono molto rumorosi invece quelli che non sono ancora entrati nella lista operatoria e si lamentano di aver aspettato molti giorni in ospedale.
A rendere più difficile la situazione ci si mettono anche alcuni pazienti che non stanno andando troppo bene nel decorso post-operatorio: per esempio ho due prostate che sanginano; un paziente prostatectomizzato che ha una fistola urinosa; una tirodectomia ed una frattura che han "fatto" pus dopo l'operazione.
Queste complicazioni mi deprimono e stendono un alone di depressione sulla mie giornate già così farraginose e faticose.
Questa sera sono particolarmente stanco ed ho la testa davvero ridotta a mozzarella: ho fatto il giro del dopo-cena come un automa, sperando di finire al più presto ed andare a letto.
Ad un certo punto mi ha chiamato un paziente di recente gastrectomizzato.
Mi è venuto un colpo: "avrà complicazioni anche lui? Cosa sarà successo?"
Mi avvicino titubante a chiedere quale fosse il problema: temevo una deiscenza della ferita o cose del genere.
Invece lui candidamente mi ha chiesto: "dopo quanto tempo potrò nuovamente espletare i miei doveri coniugali con mia moglie?"
A questa domanda, stanco me ero, non sapevo se mettermi a ridere a crepapelle o ad urlare di rabbia. Mi sono comunque trattenuto, felice soprattutto che non ci siano complicazioni post-operatorie (almeno finora).
Gli ho messo una mano sulla spalla e gli ho semplicemente detto: "pensa solo a guarire. I tuoi doveri coniugali li potrai espletare presto, e molto presto"

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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