martedì 22 novembre 2016

La preghiera e la pace

Ahmed, uno dei nostri pazienti, stamattina si è infilato il suo zucchetto immacolato e si è messo a recitare le preghiere solenni su un tappetino persiano disteso sull’erba, vicino alla lavanderia. 
Aveva il Corano aperto davanti, mentre con le dita agitava la corona con i “Novantanove grani delle lodi dell’Altissimo”. Mi ha incuriosito molto il suo Corano. 
Sembrava scritto a mano, ricco di miniature come tante nostre Bibbie monastiche medioevali. Ahmed lo scorreva dalla fine verso l’inizio... Già, perché l'arabo si legge così, “al contrario” diremmo noi. 
Sapeva che lo stavo guardando, ne era quasi fiero. 
Si è fermato solo un istante per salutarmi: “Salaam, aleikum” (“La pace sia con te”). E come da rito, facendo un lieve inchino con il capo vista la sua veneranda età, resa ancor più evidente dalla lunga barba, rossiccia per l’henné, gli ho risposto subito “Aleikum salaam” (“La pace sia anche con te”).
Davanti ad un uomo che prega, in tutte le lingue e secondo ogni religione, non posso non pensare alla pace. 


Prego perchè alla fine la pace possa prevalere in tutte quelle terre dove ancora non c'è. La pace, l’amore, la preghiera gli uni per gli altri, la carità senza barriere di razza o fede, il sorriso, sono doni che possiamo sempre scambiarci, in grado di creare ponti tra religioni, solo apparentemente distanti.
Con Ahmed, e con tutte le persone che incontro ogni giorno nella mia vita, cerco di fare così.
Molti musulmani del Kenya pensano che islam e cristianesimo siano semplicemente la scalata alla stessa montagna, intrapresa attraverso sentieri differenti, ma con lo stesso punto d’arrivo.
Anche io penso così, e lo penso di tutte le religioni.

Fr Beppe

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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