martedì 19 dicembre 2017

Intervento riuscito, ma...

“Paziente collassata in barella, vieni subito”.
“Cerca di assicurarti un accesso venoso, anche prima del mio arrivo”
“Ci stiamo provando, ma le vene sono collassate e non ha pressione”.
Il tempo di togliermi il pigiama ed infilarmi qualche vestito decente, e sono presso la malata: e’ una somala; ha un respiro affannoso e si lamenta in modo confuso. Non sembra neppure cosciente.
E’ stata riferita a noi da Marsabit: che coraggio ha avuto questa gente – penso tra me – ad affrontare un viaggio cosi’ lungo, con una donna in condizioni tanto critiche.
“Qual’e’ la storia?”
Mi risponde Lucy, dicendo che le sembra tutto improbabile: “scrivono che ha avuto un aborto completo 3 settimane fa, ed ora la mandano per gastroscopia, pensando ad un’ulcera… ma sta ancora sanguinando abbondantemente e pare anemica come un pezzo di carta immacolato. Falle prima un’eco”.
Sono completamente d’accordo con lei e spingiamo la barella in room 17. 


Infatti la situazione si presenta subito diversa e gravissima: la donna ha avuto un aborto incompleto. Parte dei prodotti del concepimento sono rimasti nel suo utero per tantissimi giorni, ed hanno creato un’infezione che ora si e’ ormai diffusa a tutto l’addome. 
All’eco si vede chiaramente una enorme quantita’ di liquido tra le anse intestinali. Ne raccogliamo un pochino sotto guida ecografica e ci rendiamo conto che e’ pus.
La decisione ora diventa difficilissima. “Andate a svegliare Jesse, perche’ bisogna decidere insieme”.
Anche lui e’ puntualissimo, e in pochi secondi ce lo vediamo arrivare con un maglione indossato al contrario per la fretta: “Jesse, si tratta di una setticemia da aborto. C’e’ una peritonite diffusa. La donna e’ anemica e non si sente la pressione arteriosa”.
“Non possiamo tentare una generale adesso, perche’ le condizioni emodinamiche sono compromesse. Infondiamo dei liquidi a go go.
Trasfondiamo una sacca di sangue ed andiamo in sala quando la situazione generale e’ stabilizzata. Nel frattempo facciamo il raschiamento usando una blanda sedazione: cosi’ cominciamo a fermare la causa dell’emorragia, ed eliminiamo la fonte dei germi”.
La sua decisione in qualche modo mi rallegra, perche’ anche io sono troppo spaventato dall’idea che la donna venticinquenne possa soccombere alla prima induzione anestetica. La malata e’ cosi’ grave che possiamo fare la revisione della cavita’ uterine usando pochissimi ml di Diprivan: ma non smette di respirare, e la procedura termina senza grossi problemi.
Ma dopo poche ore il problema si fa piu’ grave: la donna e’ confusa, suda freddo… bisogna decidere qualcosa.
“Ormai e’ peritonite conclamata. Andiamo in sala: terro’ l’anestesia leggera. Tu cerca di essere veloce con l’operazione”.
L’adrenalina e’ alle stelle. Appena aperta quella pancia, ne tiriamo fuori litri di pus. Jesse e’ bravissimo e lei continua a respirare.
L’infezione aveva gia’ causato un sacco di aderenze intestinali, che pero’ pian piano riusciamo a “smatassare”: le anse sembrano belle e non notiamo alcuna perforazione. Il pus era venuto tutto dalle tube, che ora appaiono veramente mal ridotte. Non sta sanguinando. Laviamo la cavita’ con soluzione fisiologica tiepida e chiudiamo l’addome, lasciandovi dei tubi di drenaggio.
Siamo molto felici, perche’ ci pare di aver fatto un buon lavoro. La adrenalina che ancora riempie i nostri vasi sanguigni ci rende euforici… ma questa gioia dura poco.
La donna stenta a svegliarsi. Il respiro, invece di migliorare si dirada sempre di piu’; si fa superficiale e poi periodico, fino a scomparire del tutto.
Sono in piedi davanti al suo letto. 
La mia eccitazione e’ del tutto passata, ed ora mi sento stanchissimo e depresso: mi passano davanti agli occhi vari scenari immaginari. 
Penso che domani il marito sara’ molto duro con me, che mi minaccera’, e mi vorra’ denunciare per imperizia. 
Poi la mia mente corre alla casa lontanissima della defunta, e ripenso ai bambini che da domani cominceranno a piangere disperatamente.
Forse e’ arrivata troppo tardi… tre settimane sono veramente troppe. O magari avrei dovuto essere piu’ aggressivo ed operare subito senza aspettare quelle ore in cui le abbiamo infuso liquidi.
I se ed i ma non mi portano da nessuna parte. Devo dire una preghiera per lei, e voltare pagina: lei se n’e’ andata per sempre, ed ora mi devo dedicare a quelli che sono ancora vivi.
Amaramente nel cuore ripeto a me stesso: “intervento perfettamente riuscito… e paziente morto”.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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