sabato 17 febbraio 2018

Ah, baby, quanto mi costi!

Ann è ricoverata in travaglio per partorire il suo figlioletto primogenito.
E’ giovane e bellissima; alta come una somala, ha una carnagione di un marroncino chiaro; i suoi capelli lunghissimi sono raccolti in fittissime treccine che esaltano le delicate fattezze del suo viso.
E’ stata molto cooperante in sala parto sin dalle prime doglie, ma il suo travaglio ha incontrato alcune difficoltà: la cervice si è dilatata bene fino ai cinque centimetri, ma poi si è inchiodata lì, senza dare segni di voler lasciare che il bimbo fosse partorito.
Le contrazioni continuavano forti e frequenti, ma il travaglio era in una condizione di stallo..da alcune ore eravamo bloccati e non vedevamo progressi sul partogramma.
Il battito cardiaco fetale però rimaneva sempre buono e fortunatamente non dava segni di sofferenza. Inoltre la testolina era molto bassa nel canale del parto, a testimonianza del fatto che non eravamo di fronte ad un ostacolo osseo alla discesa.
Alle ore 17, quando ormai tale situazione durava da un bel po’ di ore, ho deciso di provare con del buscopan in vena: a volte funziona e rilascia la muscolatora del collo, senza bloccare le contrazioni uterine. Non volevo farle il cesareo e speravo che avrebbe partorito
normalmente.


Mi sono posto come termine ultimo di attesa le ore 21. Con sorpresa e delusione, però, arrivata l’ora prefissata, abbiamo constatato che Ann non aveva ancora partorito. Era stanchissima e disfatta dal dolore, ed ora ci implorava di farle il cesareo per porre fine a quel calvario.
Anche io ho pensato che a quel punto la soluzione chirurgica sarebbe stata la migliore. Infatti, oltre al buscopan non sapevo cos’altro avrei potuto impiegare per dilatare quel collo che non ne voleva sapere.
Dopo circa mezz’ora siamo entrati in “sala piccola”, come solitamente facciamo per le emergenze notturne; come sempre a quegli orari la spinale tocca a me farla perchè l’anestesista non c’è.
Nel caso di Ann però mi sono accorto che le doglie erano così forti che non riusciva neppure a star seduta per l’anestesia.
Ho quindi deciso di provare a visitarla e mi sono reso conto che, per motivi inspiegabili, nel breve tempo intercorso tra la mia decisione per il cesareo e la preparazione pre-operatoria, la testolina del nascituro era scesa tantissimo e la dilatazione si era fatta completa.
L’indicazione al cesareo era quindi svanita nel nulla!
Ann non sarebbe comunque riuscita a camminare per tornare in sala travaglio ed abbiamo quindi deciso di assisterla per il parto lì dove eravamo.
Ci è voluta ancora mezz’ora di tanto dolore e di spinte possenti perchè finalmente venisse alla luce il maschietto che Ann aveva tanto desiderato.
Quello che mi ha commosso profondamente, mentre la aiutavo nel parto, è stato il fatto che durante le lunghe contrazioni, Ann spingeva con forza ed in assoluto silenzio, senza dare sfogo a nessun eccesso: non ha mai gridato e non si è assolutamente lamentata. Quando poi c’erano delle pause di sollievo tra una contrazione e la successiva, Ann si massaggiava la pancia e diceva con tenerezza: “ah, baby, quanto dolore mi stai costando!”
Ad ascoltarla mi sono venute le lacrime agli occhi ed ancora una volta ho toccato con mano la grandezza e la dignità delle mamme che soffrono e vivono solo per il loro bambino.
Sono andato a letto contento perchè il parto era andato bene, ma anche commosso e grato per aver assistito ancora una volta ad un aspetto tenero e fortissimo di quel mistero che è la maternità.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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