martedì 24 luglio 2018

Flash back

Mi trovo davanti una donna smilza e malamente vestita. Ho la netta sensazione di averla gia’ vista, ma non ricordo dove ne’ quando. 
E’ malata di malaria: la vedo provata. Ha la fronte che scotta (almeno 40 di febbre, penso tra me e me). 
Il test della goccia spessa e’ positivo per alta densita’ di parassiti. 
Le chiedo di ascoltarle i polmoni, ed e’ in questo momento che mi accorgo della sua poverta’: sotto un vestito ancora decente, indubbiamente messo solo per l’occasione, vedo una canottiera traforata dai buchi come un pezzo di groviera.
Le chiedo se vuole ricoverarsi. 
La donna piange per il mal di testa ed ha un inutile conato di vomito davanti a me; infatti non esce nulla da quella pancia incavata che probabilmente e’ vuota da giorni a causa del parassita che le impedisce di nutrirsi.
“Vuoi essere ricoverata?”... le ripeto ancora.
“Non ho i soldi!”
Tra me penso che questa e’ veramente una vecchia storia, che tutti tentano di tirar fuori davanti ad un medico bianco... ma la sua maglietta stracciata mi porta a ripensarci.


“Io penso di averti gia’ vista: sei stata ricoverata da noi qualche altra volta, o hai avuto dei figli in questo ospedale?”
“Si’, Padre, ho un bambino handicappato che e’ al momento ricoverato nel vostro centro... ma all’inizio ti ho fatto arrabbiare tanto”
“Perche’ dici questo? Aiutami a ricordare...”
La donna, pur con la lingua inaridita dalla febbre, accenna alla sua storia, ed involontariamente riapre gradualmente in me un senso di colpa sordo e profondo, che evidentemente era sepolto ma non guarito.
La mia memoria si rischiara e si fa tremenda nella sua attualita’.
Tutto mi ritorna in mente in un flash back doloroso e vivido come la sequenza di un film. Me lo rivedo davanti quell’handicappato che ora e’ parte dei nostri Buoni Figli al centro.
Ero molto arrabbiato a quel tempo, perche’ da piu’ di tre mesi quel maschietto di 10 anni circa era stato abbandonato nel reparto pediatrico. Era ed e’ un disabile molto grave. 
Non cammina, ed e’ totalmente incontinente. 
Ci era stato portato dai parenti per un ciclo di fisioterapia. Avevano promesso che sarebbero venuti a vederlo regolarmente, ma poi, subito dopo il ricovero, erano scomparsi tutti quanti. Qualche volta vedevamo dei bambini piccoli che passavano fugacemente durante l’orario di visita; se provavamo a chiedere loro notizie dei genitori, ci ripetevano sempre la stessa cantilena: “Atakuja kesho” (cioe’: verra’ domani).
Quel giorno il vaso era colmo. Dopo tre mesi mi sentivo in cuore il diritto di richiamare loro il dovere dell’onesta’, e, senza neppure rendermi conto appieno, mi ero rivestito di stucchevole paternalismo.
Decisi di portare a casa il paziente, che in effetti non stava assumendo alcuna terapia: semplicemente ogni giorno faceva la fisioterapia.
Mi feci accompagnare da Gatwiri, durante la pausa pranzo, sperando di fare molto in fretta: infatti casa sua non era distante piu’ di due chilometri. 
Prendemmo l’ambulanza e ci incamminammo. La strada era asciutta, nonostante ci fossero grandi pozzanghere, in seguito all’acquazzone della notte precedete.
Raggiungemmo in fretta il torrente Mariara, al di la’ di Chaaria market. Attraversammo il ponte senza problema, ma subito dopo ci rendemmo conto che parte della strada era crollata a causa di uno smottamento: non ci rimaneva che proseguire a piedi.
“ Quanto manchera’?”, chiesi a Gatwiri. “Circa un chilometro, ma la strada e’ in salita”. Decidemmo di parcheggiare l’ambulanza, e di prendere il piccolo sulle spalle. 
Il sole era caldissimo, ed immediatamente goccioloni di sudore cominciarono a sbocciare dalla mia fronte e a calarmi inesorabili sugli occhi. 
“Il dado e’ tratto. Si continua”, ripetevo a me stesso prima ancora che alla mia accompagnatrice. Al piccolo non potevo dire niente, in quanto non era in grado neppure di capire dove si trovava. 
Pensavo tra me e me: non e’ che non lo vogliamo ricoverare dai Buoni figli, ma ci vuole anche un po’ di protocollo. 
Se ora basta abbandonare un handicappato in ospedale perche’ automaticamente passi poi nel gruppo dei nostri deboli mentali, siamo davvero fregati: non bisogna assolutamente creare dei precedenti, altrimenti in un mese ci riempiamo fin sopra i tetti. 
Mi inerpicavo su per il sentiero facendo una fatica immane. Mi tornavano alla mente momenti della mia gioventu’, quando, zaino in spalla, scalavo il Monviso o lo Chaberton... allora mi pesava di meno; quel giorno avevo il fiatone e le gambe mi tremavano. 
Alla mia destra la collina continuava a salire, tra macchie di boscaglia, campi coltivati e modeste abitazioni in legno con il tetto in lamiera. Alla mia sinistra c’era un dirupo appena creato dalle recenti precipitazioni. 
In fondo ad un piccolo canyon un torrente stagionale scorreva impetuoso con le sue acque di color marrone scuro. 
La vista era bellissima e si perdeva verso l’orizzonte in colline che si
inseguivano all’infinito. Era tutto verdissimo e la vita era rigogliosa. Rigagnoli d’acqua scorrevano giu’ per i campi in discesa, quasi come arterie e vene che portano nuova vita alle zolle appena rivoltate e ormai popolate dai virgulti dei nuovi raccolti.
Arrivammo in vista di una casa in condizioni discrete. “Dovrebbe essere qui”, dissi a Gatwiri. “Vedi che poi non stavano cosi’ male; non erano cosi’ poveri!”.
Invece, una vecchietta ci disse che dovevamo continuare un po’, accerchiare l’appezzamento della magione che si trovava di fronte ai nostri occhi, e poi scendere a mezza costa sulla collina. 
“Ancora un piccolo sforzo”, mi dissi ansimando. Ma cio’ che veramente mi tolse il respiro non fu l’ultima discesa, anche se ripida; fu invece quello che mi trovai davanti: una capanna di fango con il tetto di paglia.
Nessun pavimento, se non la nuda terra. Ad accoglierci una donna giovane ma emaciata, dagli abiti logori e stracciati... la stessa donna che oggi mi ritrovo davanti malata di malaria.
Appena mi vede, accenno’ un sorriso imbarazzato. 
Non ci aspettava. Era tutta sporca e non aveva nulla da offrirci. Era infatti appena tornata dalla shamba (il campo). Mi disse di lasciare il bambino sotto una pianta di mango, carica di frutti grossi e rubicondi, e poi inizio’ ad indaffararsi per prepararci qualcosa.
“Gatwiri, dille di non preoccuparsi perche’ non prendiamo nulla!
Chiedile solo se posso vedere l’interno della capanna”.
Passarono alcuni minuti che a me sembrarono eterni. Guardai la collina in silenzio; vidi un falchetto che volteggiava leggero senza muovere le ali di un millimetro... probabilmente aspettava una preda ignara, per poi piombarsi su di lei in picchiata. Mi identificai un po’ con
quel rapace e provai una morsa allo stomaco.
Gatwiri mi chiamo’ dopo un attimo: “ha detto che siamo i benvenuti”.
Entrai abbassando leggermente la testa per non picchiare sullo stipite della porta. Cera una sola stanza, con pavimento in terra battuta e tetto di paglia. La camera era divisa in due parti da una tenda, che comunque lasciava intravvedere un povero giaciglio dietro di essa. Al centro un tavolo e due sedie. Sulla mensa un pentolone con un po’ di ugali (polenta) ancora fumante.
“ Dove dormirebbe il bambino?”.
La mamma indico’ alcuni cartoni in un angolo del pavimento, e sussurro’ con voce tremante: “E’ la’ che dormiva prima che lo portassimo in ospedale. Non ho alternative!”
“Dove e’ tuo marito?”
“E’ morto in un incidente alla cava delle pietre ormai 4 anni fa. Era pagato a giornata, per cui non portava a casa molti soldi. 
Non siamo mai riusciti a costruire una nuova abitazione in legno. Lui, Njiru, e’ il nostro primogenito. E’ nato cosi’ per un travaglio prolungato a domicilio. Non avevamo soldi per andare in ospedale a partorire. Anche le altre due bambine piu’ piccole sono nate qui in questa capanna.
Normalmente sono le donne del villaggio che vengono ad aiutarmi, quando iniziano le contrazioni: sono molto buone, ma non sono dei medici e a volte le cose possono anche non andare per il meglio.
Quando mio marito e’ mancato, ero incinta della piu’ piccola. Ti ho portato Njiru in ospedale perche’ non ce la faccio piu’ a seguirlo.
Sta diventando pesante, e non riesco piu’ a caricarmelo sulla schiena mentre vado nei campi a lavorare, o quando mi reco al mercato a vendere i mango. Lasciarlo a casa da solo e’ anche un problema: una volta ha avuto le convulsioni, e alla sera l’ho trovato che era quasi morto nella sua urina e nelle bave che ancora uscivano dalle sue labbra.
Te l’ ho portato e poi sono sparita perche’ non ho soldi per pagare l’ospedale: come avrei fatto a chiederti di ricoverarlo dai Buoni Figli, quando non riuscivo neppure a coprire le spese delle medicine che gia’ gli avevate somministrato.
Non ho veramente trovato la forza di venire a parlarti. Pero’ mandavo le bambine, e sapevo che Njiru era accudito e stava bene. Ora, se me lo lasci a casa, non so davvero che cosa faro’. Noi riusciamo a mangiare solo perche’ mi prendono nei campi a giornata. Mi pagano 100 scellini al giorno. Ma se lui e’ a casa, non potro’ certo fare la bracciante nella shamba di qualche padrone...”
Poi un silenzio imbarazzante calo’ tra di noi.
Solo le due bimbe continuavano ad essere contente e divertite dal fatto di vedere un bianco nella loro capanna. Correvano avanti e indietro a piedi nudi, e si ripetevano l’un l’altra: “Mzungu, Mzungu”.
Gatwiri non parlava. Io guardavo il soffitto di paglia, e, attraverso la porta aperta, riuscivo a scorgere il bimbo handicappato sotto l’albero di mango. In un brevissimo flash back mi torno’ in mente il falchetto (che ora mi sembrava un avvoltoio) che planava nel cielo pronto a colpire.
Mi venne da piangere. Mi sentii uno stupido, e poi dissi a Gatwiri: “torniamo in ospedale”.
“E lui lo lasciamo qua?”
“ Certo che no! Aiutami a rimettermelo sulle spalle. Lo teniamo in ospedale finche’ si fara’ un posto dai Buoni Figli”.
Ritorno in me dopo questo doloroso trip nel mio passato, e la guardo tremante e febbricitante: “Hai trovato un altro marito?’
“No... chi vuoi che mi prenda con tre figli di cui uno ricoverato al Cottolengo!”
“Per cui stai ancora nella stessa capanna di paglia con le tue figlie!”
“Si’, Fratello... e continuo a lavorare a giornata nel campi per chi mi prende”
“Vieni a trovarlo il tuo Njiru?”
“Normalmente passo alla domenica dopo la Messa”
Ero stato stato veramente stupido quel giorno e non voglio certo ripetere lo stesso errore. Volevo dare una lezione, ed invece ancora una volta ne avevo ricevuta una dura come una frustata... se almeno sapessi imparare dai miei innumerevoli errori!
Noi che abbiamo la corrente elettrica, l’automobile ed il telefonino, non possiamo neppure immaginare cosa significhi essere vedova, con tre bambini piccoli, in una capanna di fango e paglia, a cercare tutti i giorni qualcosa da mettere sul tavolo dei tuoi pargoletti.
“Ok, se ti ricovero oggi, chi guardera’ i tuoi bimbi?”
“Qui fuori c’e’ mia madre che mi ha accompagnata e che tornera’ a casa
per cucinare e dormire con loro.”
“Non preoccuparti dei soldi... Makena, accompagnala all’accettazione e di’ alle infermiere che le mettano subito il chinino in vena”.
Questo gesto di oggi lo vivo un po’ come riparazione di quanto ho fatto ormai piu’ di un anno fa, e, come per incanto, il senso di colpa diminuisce.

Fr Beppe Gaido


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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