martedì 17 luglio 2018

Una lettera dagli infermieri di Chaaria

Ciao, mi chiamo P. e sono infermiere di reparto nell’Ospedale di Chaaria. Lavoro qui da diversi anni ed ho visto cambiare molte cose qui: sicuramente i Volontari hanno contribuito a questo, sia con i soldi che raccolgono sia con la loro presenza qui; volontari gioie e dolori……ne vediamo arrivare molti, infermiere/i, medici in genere giovani, che si fermano qualche settimana. 
Qualcuno, fortunatamente si ferma qualche mese ed è così utile!
E’ uno spettacolo vedere la loro faccia il primo giorno: stupore, disagio, ansia ed una domanda negli occhi: come farò a lavorare in queste condizioni? 
Noi staff locale ci siamo abituati a questo camerone con 40 letti vicini vicini, al poco spazio, al fatto che convivono malati internistici, chirurgici, ortopedici, immuno depressi in fase avanzata, affetti da TBC, o da ulcere tropicali mostruose, assieme ad ustionati, disturbati mentali ed altro ancora. 
Se i malati sono tanti invece gli infermieri sono pochi, pochissimi con turni di lavoro lunghissimi (magari preceduti e seguiti da una lunga camminata da e per casa) ed il lavoro da fare infinito: distribuire i farmaci, seguire i protocolli degli operati, tenere sempre sotto controllo i lavaggi continui dei prostatectomizzati, medicare le piaghe da decubito, le ulcere tropicali, le ustioni cambiare chi si è sporcato e poi all’improvviso arriva l’urgenza, il paziente da preparare per l’operazione immediata: BRANULA, SHAVING, CATHETER, FHG, BLOOD GROUP, RBS; in continuazione i nuovi ricoveri, le cartelle cliniche da compilare.


Non sempre hai in reparto qualcuno a cui chiedere: i Clinical Officer dopo il giro malati sono dagli out patient, i chirurghi in sala, Fr. Beppe dappertutto. 
E i Volontari? Qualche volta è anche difficile parlarsi perché il loro Inglese è scarso e la nostra pronuncia – dicono – particolare; ma questo è solo una parte del problema. 
Tanti, sia medici che infermieri arrivano con tanta buona volontà ma con l’idea del “loro ospedale” in testa, dove il lavoro è suddiviso tra tante persone, dove i malati sono omogenei nei vari reparti: i chirurgici, i medici, gli ortopedici i neurologici... e spesso hanno esperienza solo di “quel” reparto. 
Qui scattano due atteggiamenti: qualcuno chiede cosa può fare per aiutarmi a finire tutta la mole di lavoro, come può fare per lavorare senza tenermi occupato a lungo a fare l’interprete con i malati: le medicazioni in autonomia, l’attenzione alle flebo da cambiare, ai lavaggi per gli infermieri; per i medici il controllo delle cartelle cliniche, degli esami fatti e da fare, le dimissioni, il raccordarsi con i Clinical Officers e con noi, che abbiamo tanto da imparare ma anche tanto da insegnare.
L’altro atteggiamento è di chi vuole cambiare il nostro modo di lavorare: “da noi si fa così” “il carrello dei farmaci è disordinato” “è inutile fare le medicazioni a giorni alterni, basta meno” “ i malati sono sporchi e puzzano” “possibile che nessuno abbia visto che l’infusione era finita?” e tanta altre cose. 
A questo punto noi li lasciamo dire, magari li evitiamo: loro sono come il vento che mette sottosopra le foglie ma poi passa e va; noi invece restiamo, il nostro Ospedale va avanti anche senza questi volontari, ma sicuramente sono occasioni mancate per loro e per noi.
Invece è bello ritrovare quelli che tornano anno dopo anno, che si sono trovati bene con noi e quando ci vedono si ricordano i nostri nomi, ci abbracciano con affetto, chiedono della nostra famiglia. Sono quelli che magari ci hanno insegnato qualche cosa con gentilezza e condivisione, sono quelli che con noi fanno crescere l’Ospedale.
Lo so che non è facile questo né per i nuovi volontari né per noi, ma i problemi si affrontano affiancandosi e parlando insieme: noi Africani siamo pazienti ed amiamo parlare . Karibu sana.

P. a nome di tutti gli infermieri di Chaaria

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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