giovedì 9 agosto 2018

Lo spirito della morte ha vinto ancora

Gideon ha 32 anni. Lo hanno appena portato in condizioni gravissime.
E’ molto agitato, ed incosciente. Si dimena e sembra che abbia una rigidita’ nucale.
Provo a dargli dei pizzicotti, ma non sembra sentire alcun dolore.
Semplicemente continua con i suoi movimenti inconsulti; ha la pressione bassa e sudorazione fredda. Non ha febbre. Lo visito sommariamente perche’ mi han gia’ chiamato per un cesareo.
Per ora soprassiedo alla puntura lombare e preferisco iniziare la terapia di associazione per meningite e malaria cerebrale.
Stupidamente la fretta mi fa dimenticare di mettere una mano sulla sua pancia.
Esco dalla stanza e lascio il paziente con l’infermiera, dicendole di testare la sua emoglobina e di raccogliere il sangue per la goccia spessa.
Vado a cambiarmi per il cesareo, ma, prima che io possa entrare in sala vengo chiamato di nuovo in room 17: Gideon e’ gia morto.... pochi minuti dopo la mia visita. 
Non riesco a capacitarmi. Solo ora mi rendo conto che il suo addome e’ disteso. Gli metto una mano sulla pancia, e la sento durissima: quasi inconsciamente decido di fargli un’eco. Le anse intestinali ballano in una gran quantita’ di liquido denso.


Prendo una siringa da 10 e buco per aspirarne un campione. Non e’ sangue, e quindi non puo’ essere un aneurisma dell’aorta che si e’ rotto improvvisamente. Si tratta di un liquido essudatizio, un po’ fecaloide. Che stupido! Non che ce l’avrei fatta a salvarlo, ma avrei dovuto pensare alla perforazione addominale da tifo, oppure ad un'ulcera peptica perforata.
Capire la situazione pochi minuti prima della morte, non avrebbe cambiato le cose per lui, ma io mi sentirei meno stupido ed avrei meno sensi di colpa.

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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