venerdì 4 aprile 2008

Il Mobile Clinic


Ogni giorno provo emozioni forti e contrastanti, vivo momenti e situazioni che mi stanno segnando e cambiando profondamente; a volte mi mettono in crisi, mi suscitano dentro profondi interrogativi e domande, altre volte mi donano una gioia ed una serenità incredibili... insomma, ogni incontro, ogni volto, ogni sorriso, o pianto sono ormai parte di me, del mio cuore.
Un’esperienza forte e significativa che ho avuto la possibilità di fare due volte al mese è il ‘Mobile clinic’ a Kiamuri. Il primo ed il terzo venerdì di ogni mese si va al dispensario di questa zona: il primo venerdì si visitano e vaccinano i bambini, mentre il terzo venerdì si eseguono le visite prenatali di controllo alle mamme.
Non so se a parole riuscirò a rendere completamente quello che ho provato, non solo la prima volta che ci sono andata, ma tutte le emozioni, i sentimenti, i pensieri che mi si affollano nel cuore ogni volta che ci vado.
Di solito prima di partire si attrezza la jeep e si carica la cassa contenente tutto l’occorrente, un piccolo frigo portatile con i vaccini, una borsa con il pranzo al sacco, la tanica dell’acqua potabile... e si parte.
Per arrivare a Kiamuri impieghiamo circa un’ora (naturalmente quando non è la stagione delle piogge). Durante il tragitto osservo tutto con meraviglia, come avessi gli occhi d’un bambino, mi guardo attorno e rimango colpita da ogni cosa che vedo: il paesaggio è estremamente bello, La natura è pressoché incontaminata e bellissima; ogni tanto qualche scoiattolo, capra o gallina ci tagliano la strada.
Man mano che ci allontaniamo da Chaaria, lungo la strada cominciano ad esserci non più case di legno con il tetto in lamiera, ma sono preponderanti quelle fatte di fango e paglia; spesso sono addirittura così piccole che sembra impossibile che qualcuno ci possa vivere dentro. La strada è sempre più malmessa e, in alcuni tratti, ho quasi l’impressione che il veicolo si possa capovolgere da un momento all’altro; per non parlare della polvere rossa che, sollevata dall’auto come una nuvola, penetra all’interno nonostante i finestrini chiusi. Lungo la strada incrociamo molta gente che va a piedi: donne con i bimbi sulla schiena, altre curve che trasportano sulle spalle pesanti fascine di legna, oppure sacchi così pieni che sembrano quasi scoppiare, bambini che pascolano le mucche o le capre; altri bimbi assieme ai più grandicelli vanno e tornano dal ruscello portando taniche piene d’acqua, o meglio trascinandole dato il loro peso eccessivo.
Ed ecco che passiamo vicino al ruscello che ai miei occhi appare quale un piccolo corso d’acqua dall’inconfondibile tinta rosso-marrone, ovviamente non potabile... e invece qui si ha l’impressione che quell’acqua sia indispensabile alla vita. In pochi metri si vede di tutto: chi riempie d’acqua le taniche, chi lava i vestiti, chi porta le mucche ad abbeverarsi... Non posso fare a meno di pensare alle nostre comodità, facendo il confronto con la nostra vita; in casa nostra basta semplicemente aprire il rubinetto e l’acqua potabile scorre, calda o fredda, per ogni uso domestico; per non parlare della corrente elettrica, del bagno in casa, delle strada asfaltate... insomma, tutte cose a cui noi siamo abituati e che diamo per scontato, e invece qui... e invece qui non solo manca tutto questo, ma spesso la gente non ha nemmeno il necessario per condurre una vita dignitosa (vestiti, scarpe, eccetera), per curarsi quando si ammala, a volte addirittura per sfamarsi.
Così mi nascono dentro un sacco di emozioni: di vergogna per tutto quello che abbiamo e che spesso non apprezziamo, rabbia, tristezza, senso d’impotenza...;allora mi pongo una serie di domande: perché c’è chi non ha neppure il necessario per vivere, chi soffre così tanto, chi conduce una vita così dura e, al contrario, c’è chi ha, non solo il necessario, ma addirittura il superfluo, c’è chi conduce una vita con tutte le comodità, per cui ogni cosa, anche la più banale, appare indispensabile?
Di certo anche da noi la vita non è facile e non mancano le difficoltà; ma, se guardo le cose da qui, dalla parte dei poveri, il mio punto di vista è un po’ diverso e vedo ogni cosa sotto un’altra luce. Risuonano in modo prepotente dentro di me diverse domande: è possibile che non ci sia un po’ di giustizia? Che non sia dato a tutti di vivere dignitosamente? Che cosa posso fare io nel mio piccolo riguardo a questo, qui nel quotidiano, ma soprattutto quando tornerò a casa?
Così mentre penso a tutte queste cose, arriviamo al dispensario, attorno alle 10 e 30, o 11 del mattino. All’esterno ci sono già molte persone che aspettano, stando sedute o su alcune panchine, o sull’erba, all’ombra d’una pianta.
Scarichiamo l’occorrente ed entriamo nel dispensario. Praticamente si tratta di 3 stanze: una ad uso laboratorio, una d’attesa per i pazienti e distribuzione dei farmaci, ed un’altra adibita alle visite (quella destinata a noi; all’interno di quest’ultima ci sono un lettino, un tavolo di legno, due sgabelli e due panchine in legno ed una bacinella con dell’acqua.
La luce entra dall’unica finestra con le inferriate e l’imposta fatta di un sottile pannello di compensato. Il pavimento ed i muri sono ricoperti di cemento e, se alzo lo sguardo, il soffitto non è altro che il pannello di amianto ondulato che costituisce il tetto dove, a dir la verità, c’è anche qualche buco. Prendiamo dalla cassa le poche cose che ci servono e sistemiamo sul tavolo il contenitore con i vaccini, e cominciamo le visite
Quando c’è la visita alle mamme, le cose procedono con calma e tranquillità: controllo del loro peso, della pressione arteriosa, la visita, il controllo del battito cardiaco fetale, le vaccinazioni, il prelievo del sangue per le indagini di laboratorio, la consegna di alcuni farmaci, se necessario. Di solito in un giorno ne visitiamo una trentina.
Molte delle donne che arrivano sono già alla seconda, terza, o quarta gravidanza e, in genere, hanno un’età compresa tra i 16 ed i 40 anni. Alcune hanno una gravidanza mediamente ogni anno, oppure un anno e mezzo, altre non ricordano con precisione la data dell’ultima mestruazione, o la data di nascita dei loro numerosi figli, altre sono sposate, o vivono con il padre del bimbo, altre sono giovani ragazze madri; la maggior parte non ha terminato il ciclo di studi e vive del lavoro dei campi. Esse arrivano al dispensario camminando sotto il sole cocente, verso il termine della gravidanza e, a volte, con un bimbo portato sulla schiena. Quando entrano mi sorprendo a guardarle e noto subito, da molti particolari, che la gente di questa zona è ancora più povera di quella di Chaaria. La maggior parte di loro arriva scalza, perché non può permettersi di comperare un paio di scarpe, o di ciabatte, oppure calza scarpe logore e consumate, o bucate. Apparentemente i vestiti che indossano sono dignitosi, di colori sgargianti... ma spesso sono ricuciti in più punti, o rattoppati... e nonostante tutto a nessuna manca il sorriso sulle labbra.
Per me che vengo da un paese dove l’indice di natalità è prossimo allo zero, dove la popolazione è destinata ad essere costituita in prevalenza da anziani... insomma, il confronto ed il contatto con questa realtà così diversa è molto forte.
Per non parlare di quando visitiamo i bimbi: si tratta di un’ottantina di loro. Essi vengono chiamati a gruppi di 6, o 7 per volta. Le loro mamme li spogliano e li adagiano nell’apposito involucro di stoffa personalizzato che viene consegnato a ciascuna, e così essi vengono appesi ad un gancio della bilancia, che a sua volta viene fissata con una corda ad una trave del soffitto, e così il peso del bimbo viene registrato. Si passa poi alle vaccinazioni, accompagnate da pianti, strilli, sorrisi che rendono la giornata intensa e vivace.
Dallo stato delle cose, mi pare a volte di vivere una situazione irreale, tanto è lontana e diversa dalla nostra realtà.
Sia per la visita alle mamme, che per i bimbi, viene chiesto un piccolo contributo spese, ma mi rendo conto che per loro è spesso un sacrificio aldilà delle loro possibilità, mentre per la Missione tale cifra è insufficiente a coprire le spese sostenute ad espletare questo servizio. Tale piccolo contributo non viene comunque richiesto a coloro che davvero non possono permetterselo: è infatti parte integrante della spiritualità del Cottolengo non mandare via i poveri e sostenerli quando davvero sono abbandonati e completamente indigenti.
Se penso a come sono diverse da noi le cose, a come è vissuta e monitorata la gravidanza, ai controlli pre e post-natali, sia della madre come del piccolo, alle vaccinazioni, ai nostri ospedali o cliniche superattrezzati, comodi, vicini e facili da raggiungere... non c’è confronto.
La maggior parte delle donne di questa zona partorisce ancora in casa (nelle capanne di fango), perché è troppo lontana dall’ospedale per raggiungerlo a piedi, in preda alle doglie... e così non sono infrequenti le morti della mamma, o del nascituro, durante il parto, o complicanze post parto per entrambi... Così, immersa in questa realtà, d’una vita appena sbocciata, provo grande gioia per il miracolo d’una nuova vita che nasce, dono meraviglioso per qualsiasi madre, ma capisco anche che certamente queste mamme e questi bimbi devono affrontare una vita molto dura, segnata da sofferenze, dolori e sacrifici.
All’apparenza può sembrare che quello che si riesce a fare col servizio di ‘Mobile clinic’ sia poca cosa se paragonata ai nostri standards, o alle necessità ed ai bisogni enormi che ci sono qui, ma sono convinta che anche quel poco fatto qui assume un peso ed un significato vitale: si dà la possibilità a queste persone di vivere in un modo più dignitoso, una tenue speranza in un domani migliore e magari, se possibile, con qualche problema in meno.
Di fronte a queste persone, a questi volti, ai loro occhi, ai loro sorrisi, mi ritornano in mente con forza le domande che erano affiorate lungo il tragitto verso Kiamuri; ritornano amplificate e più forti di prima e mi accompagnano ogni giorno in questa mia esperienza a Chaaria. Di certo non mi aspetto di trovare delle risposte, o delle soluzioni, ma condivido con ciascuno di voi queste mie emozioni, magari sperando di avere suscitato anche nei vostri cuori qualche analogo interrogativo.
Ad ogni modo offro tutto a Dio, gioie, dolori, incertezze e dubbi, assieme a felicità e serenità, e metto ogni cosa nelle sue mani, certa che Egli è un Padre che ama i suoi figli, soprattutto, questi suoi figli, poveri ed ultimi.

Erika Baggio
(Una volontaria)


Nessun commento:


Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


Guarda il video....