giovedì 9 settembre 2010

Un pò di fatica interiore

A volte sentiamo un po’ di stanchezza nei confronti di alcuni atteggiamenti che non hanno nulla di sbagliato in se’, ma che, ripetuti ogni tre settimane, possono costituire un pattern un po’ stressante per noi.
 
1) Noi vogliamo certamente imparare da tutti, ma e’ anche bello quando quello che sappiamo fare viene riconosciuto ed accolto. Non necessariamente chi ci insegna deve sempre trattarci come bambini di prima elementare. Siamo al corrente delle tante cose che non sappiamo, ma ci pare comunque di onorare la storia e lo sforzo di tanta gente che ci ha aiutati in passato nell’affermare che di passi avanti ne abbiamo fatti tanti in vari aspetti della medicina.
2) Bisogna che chi viene ad aiutarci sia disposto anche a fare qualche sacrificio: mi spiego meglio. Se tutti i volontari nello stesso momento vogliono essere in sala operatoria per fare i cesarei, ci sono due tipi di problematiche.
Il primo e’ relativo al supercongestionamento della nostra microscopica stanzetta di operazione (non posso per onesta’ chiamarla sala operatoria!), dove non ci si gira e non si respira. Il supercongestionamento porta inoltre ad altri problemi: ad esempio, se per fare un’operazione dove normalmente siamo in due o in tre, ci vestiamo in quattro o in cinque, si consumano piu’ guanti sterili e si sottopone il nostro reparto di sterilizzazione ad un aumento di lavoro, per esempio per i camici.
Il secondo ordine di problemi e’ relativo al fatto che, stando tutti in un settore, se ne lasciano altri scoperti: e la parte meno attesa e’ sempre la medicina generale, dove per altro abbiamo anche i pazienti piu’ poveri.
Io credo che ci sia una differenza tra volontariato (che ti porta a lavorare negli ambiti in cui la realta’ locale ha piu’ bisogno di te), ed esperienza di formazione o accrescimento professionale: per esempio alcune settimane fa abbiamo avuto Wilson, volontario kenyano, che espressamente e’ venuto per fare “esperienza”, essendo iscritto al corso per tecnici di sala operatoria.
Lo sapevamo, lo abbiamo inserito nel reparto operatorio; ha iniziato prima ad aiutarci come staff “non lavato”; poi lo abbiamo fatto “lavare”; gli abbiamo insegnato a lavorare come strumentista, e, durante gli ultimi giorni ha addirittura fatto da secondo.
Ma lo sapevamo che il suo era un tirocinio, o qualcosa del genere.
Io credo che sarebbe molto bello che le persone che hanno dei bisogni particolari di esperienza professionale, me lo esprimessero precedentemente al loro arrivo, magari con uno scambio di email. In tal modo sarebbe piu’ facile per me organizzare il lavoro, e non mi farei delle attese che poi rimarrebbero deluse in quanto i mei desideri e quelli del volontario non collimano.
Anticipatamente ringrazio per la collaborazione, che e’ ancora una volta finalizzata al miglioramento del nostro servizio.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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