sabato 2 ottobre 2010

La cattiveria non ha limiti

Ho letto con attenzione gli scritti di Beppe che descrivono le aggressioni, che persone a volte per futili motivi aggrediscono innocenti massacrandole a colpi di panga.
Il panga per chi non lo sapesse e una sorta di macete, lungo una circa 50-60 centimetri con uno spessore di circa 3 millimetri o più, usato comunemente per il taglio delle erbe , dei rami, per fare legna e scopi legati alla cultura contadina. Purtroppo diventato famoso in tempi non lontani per l’uso indiscriminato nel genocidio tra popoli fratelli di diverse etnie quali i Tutzi da parte degli Hutu in Ruanda dove persero la vita massacrati circa 1.000.000 di persone, e più recentemente in Kenia tra il gennaio e maggio del 2008, dove diverse persone di etnia diversa si affrontarono, i Kikuyu sostenitori di Kibaki presidente uscente e i Luo sostenitori di Odinga leader dell’opposizione alleatisi per l’occasione con i Kalenjin, e dove persero la vita massacrati a colpi di panga decine e decine di persone.
Si dice che  molte persone approfittarono dei disordini per sistemare vecchie faccende, e per così dire sistemare i conti.
Le lesioni che si  riportano a seguito dei colpi di Panga  sono tremende, e quando le vittime non perdono la vita, il più delle volte riportano dei danni devastanti e fortemente limitative per la vita.
Personalmente ho avuto la sfortuna di dover assistere diverse persone colpite da queste lame micidiali.
Qualche anno fa. Era l’ultima sera della nostra ormai lunga permanenza in un ospedale ad un paio di kilometri da Chaaria, mi ricordo che avevamo appena finito di fare le valigie,  stavamo salutando il personale dello staff festeggiando con un bicchiere di ottima coca cola fresca, quando dal OPD ci chiamano per un caso urgente.
In Kenya tutto scorre lentamente, le persone pur lavorando sembra si muovano al  rallentatore, anche l’orologio segue questa regola, è il cosi detto “Africa Time”, tutto viene fatto senza la frenesia del mondo occidentale, -“pole pole” - piano piano -,  pertanto vedere il personale del OPD (o Pronto Soccorso) agitato ci ha messo un poco d’apprensione.
Una volta arrivati all’ OPD ci siamo resi conto della gravità della situazione, si trattava di una giovane donna, ridotta in fin di vita con la testa quasi staccata dal collo, vaste lesioni sul viso e sulle spalle, e con entrambe le mani amputate e,  come abbiamo saputo in seguito,  solo perche non aveva dati al FIGLIO i soldi per andare a bere, la poverina aveva negato i soldi perché gli servivano per sfamare gli altri tre figli.
Con me in quel momento c’era anche un anestesista pertanto, abbiamo  portato la donna in stato di shock in sala operatoria dove è  stata subito sedata e addormentata.   
Per fortuna  diversamente suturare e ripristinare i tessuti distrutti senza una buona sedazione sarebbe stato pressoché impossibile.
Il risultato è stato disastroso, nonostante il nostro tempestivo intervento non siamo riusciti a salvarle una mano, ormai amputata completamente, mentre l’altra, sia con qualche problema legato alla mancanza di fili idonei siamo riusciti a salvarla.
Di solito io non faccio fotografie ai malcapitati, ma la volta ho pregato una persona dello staff di fere alcune foto per documentare la nefandezza del gesto alla polizia che aveva già in consegna l’aggressore, ma non aveva avuto occasione di vedere la vittima.
Le allego alla presente, e non so se Beppe, vista la crudezza delle immagini ha il coraggio di farlo, ma servono a testimoniare il fatto che sotto gli effetti del alcool o di droghe neanche  i figli rispettano le madri, figuriamoci poi il rispetto che  possono avere per gli altri. 
Adesso provate a  pensare lo stato d’animo di chi si accinge a operare in queste situazioni, consapevole che in un paese cosi povero, la vita è piena di stenti e privazioni per una persona che può contare su due mani, e immaginate  che vita viene riservata a una persona con una mano sola o addirittura senza mani in un posto tanto crudele.

Il volontario Rinaldo





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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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