domenica 21 novembre 2010

Veramente dura

Ania e’ laureata da un anno soltanto presso l’Universita’ di Posnan, e da circa 10 giorni e’ stata catapultata nel nostro ‘repartone’ generale. Non c’erano alternative: Antonio e’ in Italia; Ogembo e’ in ferie ed il sottoscritto si deve barcamenare tra pazienti ambulatoriali, maternita’, chirurgia e diagnostica per immagini.
Ania e’ una persona veramente umile ed estremamente laboriosa: lavora dal mattino alle 8 alla sera alle 23, e non c’e’ verso di convincerla a prendersi qualche ora di riposo durante il fine-settimana.
Ora e’ un po’ in crisi, soprattutto perche’ la “terapia d’urto” ricevuta sin dal primo giorno in reparto ha messo a nudo tutte le sue difficolta’. Abbiamo parlato molto ieri, e mi ha detto: “Oggi e’ una giornata nera. Ho cercato di vedere un po’ tutti, ma i malati sono troppi, e penso di aver fatto proprio niente. Sono molto inesperta. Ti focalizzi su un problema e ne dimentichi molti altri, probabilmente proprio quelli che poi alla fine uccideranno il paziente. Guarda Wilson: a 15 anni di eta’ e’ morto tra le nostre mani, e non siamo riusciti a fare nulla per salvarlo. Sembrava una leucemia e lo stavamo trasfondendo in attesa che i suoi parenti decidessero il viaggio a Nairobi per la chemio. Poi pero’ hai fatto l’ecocardio, e hai visto quel cuore enorme e quel versamento pericardico. Aveva la leucemia o uno scompenso cardiaco?
E poi l’hai visto stamattina prima che morisse? La pancia e’ diventata dura e sovradistesa: aveva forse un addome acuto?”
“Cara Ania, a dirti il vero non lo so neppure io. La sua anemia estrema (1.8 di emoglobina) potrebbe in se’ stessa essere la causa dello scompenso cardiaco... ma non ne sono certo! I suoi globuli bianchi certamente avrebbero potuto suggerire una leucemia mieloide, ma anche una peritonite: il fatto e’ che pochi minuti prima di morire la sua pancia era bella! In Italia ed in Polonia abbiamo tanti test a disposizione che qui non sono disponibili: se fossimo stati la’, probabilmente avremmo tirato su il telefono e chiamato prima un ematologo e poi un cardiologo, e quindi forse un chirurgo. Avremmo avuto a disposizione un puntato midollare in pochi minuti, ed un ecocardiogramma ben fatto (non come quelli che mi ingegno a fare io). Qui siamo soli, cara Ania, ed abbiamo cosi’ tanti pazienti che ci sentiamo soffocare. I chirurghi erano in sala, e Wilson e’ morto prima che io potessi informarli. In Polonia avresti avuto un primario a cui chiedere e su cui scaricare le tue tensioni ed i tuoi dubbi: lui si sarebbe preso la responsabilita’ davanti a Dio e davanti alla legge; qui hai solo me... e non ne so molto piu’ di te!
Ricordo quello che mi ha detto recentemente Roberto, un mio amico d’infanzia ora pediatra in un’ Universita’ italiana: anche se in reparto abbiamo tutto, e pur essendoci una decina di pediatri che fanno il giro visita tutti i giorni, recentemente ci e’ ‘scappata’ una diagnosi di leucemia ed il bambino e’ ora gravissimo. Se sbagliamo noi in quelle condizioni ottimali di lavoro, figurati a te in Chaaria quante diagnosi possono sfuggire.
Cara Ania, il mio amico aveva ragione: lo stress a cui siamo sottoposti 24 ore al giorno (perche’ anche le chiamate notturne tolgono lucidita’ di ragionamento clinico), il rapporto numerico di uno a duecento tra medico e paziente, l’impossibilita’ di avere una figura professionale anziana a cui far riferimento, la limitatezza delle possibilita’ diagnostiche strumentali e di laboratorio... ci espongono certamente all’errore. Anche la stanchezza ha un peso rilevante in questo: ma che cosa ci possiamo fare? I malati ci sono ed aumentano, e di medici stabili ce ne sono sempre troppo pochi. Non dobbiamo pero’ scoraggiarci. E’ vero’ che normalmente pensiamo ai nostri fallimenti, dimenticando i successi: oggi quindi nella tua mente c’e’ Wilson che non sei riuscita a salvare perche’ non hai neanche capito quello che aveva (neppure io, per altro!). Pero’ cerchiamo anche di focalizzarci sulle persone che sono andate a casa guarite! E’ vero che in Medicina e’ sempre cosi’ enorme il bisogno che ci pare di non aver fatto nulla, ma e’ anche sacrosanto che la mortalita’ del nostro ospedale si aggira sul 2%... questo significa che il 98% delle persone ad un certo punto vanno a casa in qualche modo migliorate.
Fare il medico in Africa e’ comunque una bella palestra di umilta’ in cui prendiamo coscienza dei nostri limiti ed in cui ci liberiamo da quell’aura di onnipotenza da cui spesso i medici vengono corteggiati.
Coraggio cara Ania... quello che fai per i malati ed anche per me e’ veramente importante. Pensa a Chaaria senza di te: io avrei tutto il carico di lavoro che tu vedi con i tuoi stessi occhi, ed in piu’ anche il ‘repartone’ dove tu stessa dici di non farcela. Che cosa pensi che riuscirei a dare a quei malati? Molti di loro morirebbero senza aver mai visto la faccia del dottore. Ora, se non altro, sei li’ per loro ogni giorno dal mattino alla sera! Ti racconto ancora un episodio della vita di Madre Tersa di Calcutta, e poi andiamo a riposare: un giorno una giornalista chiese a Madre Teresa come si sentisse di fronte a tutta la massa di poveri che non riusciva comunque a raggiungere sulle strade della sua citta’.
La risposta della santa suora e’ stata illuminante: Dio non mi chiede di risolvere tutti i problemi ne’ di eradicare la poverta’ dalla faccia della terra. Lui mi chiede la federla’...
Vero che e’ una bella risposta? Ti propongo anche questa piccola meditazione: Dio non ci chiede di guarire tutti. La morte fa parte del ciclo della vita. A Lui basta la nostra dedizione fedele a chi soffre”

Fr Beppe Gaido



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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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