mercoledì 31 agosto 2011

In Africa ancora è possibile

Sono le ore 21.40 e la  riunione comunitaria sta volgendo al termine. Qualcuno bussa alla porta; e’ Penina: “vieni subito in sala parto perche’ sembra che la mamma abbia problemi!”.
Chiedo permesso ai confratelli, e mi avvio correndo verso l’ospedale. In maternita’ vedo una donna in preda alle doglie, la quale non riesce purtroppo a partorire il feto che rimane testardamente inchiodato dentro il suo ventre.
Domando rapidamente di chi si trattasse, e Lucy mi dice che era una paziente appena arrivata, dopo aver tentato a lungo di partorire a casa. Non c’e’ tempo per altre domande. La pressione della donna e’ buona e lei, a parte il forte dolore dovuto a contrazioni continue, e’ in buone condizioni generali.
Lavoriamo alacremente, ed infine riusciamo a far uscire un maschietto abbastanza piccolino, il quale, per ragioni sconosciute, non voleva saperne di venire al mondo. A questo punto sento che il mio compito e’ finito e che mi posso dedicare ad altri problemi: infatti il corridoio e’ pieno come se fosse lunedi’ mattina... siamo proprio diventati un pronto soccorso a tutti gli effetti.
Ad aspettare c’e’ una frattura esposta di una tibia, ed un morso di serpente. Il tempo necessario per applicare una doccia gessata e per contrastare con il siero specifico il veleno del mamba, non supera i 45 minuti.
Ritorno in sala parto e mi rendo conto con disappunto che la placenta non e’ ancora uscita: cio’ costituisce e’ un grave problema perche’ questa situazione porta con se’ il rischio di emorragia post partum. Bisogna agire in fretta perche’ la mamma sembra un po’ anemica.
Le facciamo una breve anestesia generale e le pratichiamo la rimozione manuale della placenta che si lascia estrarre senza particolari problemi, anche se era ancora attaccata saldamente alla parete uterina. Ci sono tante lacerazioni sul corpo della poveretta, ma pian piano le suturiamo tutte. La donna ringrazia Dio per il dono della vita che le era stato concesso per la seconda volta: “adesso sono proprio contenta perche’ a casa ho una bimba, ed ora ho anche il maschietto”.
Anche se l’emoglobina e’ di 7 grammi, la degente ha perso molto, e decido di trasfonderla.
Sono le ore 23 e ritengo di poter andare a letto. Lucy e Penina stanno ripulendondo la donna, la quale sembra del tutto normale. Poi il disastro si sviluppa in pochi minuti....
“Datemi dell’acqua, perche’ ho sete”, comincia a ripetere la mamma in tono via via piu’ concitato. Poi comincia a sbuffare come se le mancasse il respiro, ed un microsecondo piu’ tardi ha dei conati di vomito.
Dalla room 17 sento tutto e mi precipito: “come e’ la pressione?”
“Imprendibile, non sento niente...”
La donna diventa agitatissima ed inizia a dimenarsi strappandosi piu’ volte la cannula della trasfusione.
Le mie ginocchia si mettono a tremare, e faccio fatica a rimanere lucido per dare le indicazioni necessarie agli altri membri dell staff. Chiedo a Lucy di provare a prendere un’altra vena. Io corro in sala operatoria cercando lo spremisacca in modo da trasfondere piu’ velocemente. I vasi sanguigni sono tutti collassati e non riesco neppure ad incannulare la femorale. Intanto le labbra e le congiuntive diventano bianche come un pezzo di carta... tutto succede cosi’ rapidamente, che sembra un sogno o una scena di un film. Il bambino e’ ancora sul fasciatoio e piange; lui sta bene e non ha problemi... Jesse, decide di venire ad aiutarmi: intuba la mamma, e la ventila con ostinazione. Noi pratichiamo adrenalina e tutto quello che conosciamo per rianimarla. Non riusciamo a capacitarci di quel che sta succedendo ineluttabilmente. La malata non perde sangue, e l’eco addome, fatta con lo strumento portatile, non dimostra presenza di emorragia in peritoneo. D’altra parte, durante la rimozione manuale della placenta, avevo cercato di sentire bene le pareti uterine con le dita, e non avevo percepito segni di rottura.
Ma la spirale di eventi continua e l’inevitabile e’ davanti a noi, anche se Jesse continua a ripetere che dobbiamo continuare a cercare una vena, mentre lui pompa con l’ambu. Io sono disperato e senza forze. Guardo le pupille con una torcia e le trovo dilatate e fisse. Metto lo stetoscopio sul torace e non sento attivita’ cardiaca:
“Jesse, e’ morta... non c’e’ niente da fare!”
“No, daktari, e’ ancora viva... per favore falle della adrenalina intracardiaca e poi massaggia”... eseguo i suoi ordini con poca convinzione, finche’ anche il nostro vecchio anestesista si arrende all’evidenza: e’ morta.
Siamo svuotati e ammutoliti!
Lucy si abbandona imbambolata su uno sgabello. Penina corre in bagno e piange (era la prima volta per lei!). Jesse se ne va immediatamente a letto quasi che non possa sopportare la scena. Io guardo il vuoto e sono pietrificato dall’angoscia:
Quel che e’ successo rimane un mistero: la cervice era stata riparata. L’utero non era rotto. Non c’era emorragia in corso. Con il senno di poi, magari si trattava di una anemia cronica ben tollerata. Probabilmente quel 7 di emoglobina non corrispondeva alla realta’ a motivo dell’emoconcentrazione che segue una emorragia acuta.
E’ possibile che lei sia arrivata da noi con 5 grammi o meno, e che il sanguinamento originato dalla placenta ritenuta abbia scompensato completamente le sue condizioni emodinamiche.
Sono ancora in preda ad una grande confusione. Abbiamo un altro neonato orfano. Dobbiamo nuovamente parlare con dei parenti che si aspettavano una festa di vita ed invece riceveranno una notizia di morte.
Prego per quella donna e non riesco a togliermi dagli occhi l’ immagine del suo corpo senza vita: mi tormenta soprattutto di notte quando non riesco a dormire e mi chiedo se avrei dovuto fare qualcosa di diverso

Fr Beppe


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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