Sono le ore 21.40 e la
riunione comunitaria sta volgendo al termine. Qualcuno bussa alla porta;
e’ Penina: “vieni subito in sala parto perche’ sembra che la mamma abbia
problemi!”.
Chiedo permesso ai confratelli, e mi avvio correndo verso l’ospedale. In
maternita’ vedo una donna in preda alle doglie, la quale non riesce purtroppo a
partorire il feto che rimane testardamente inchiodato dentro il suo ventre.
Domando rapidamente di chi si trattasse, e Lucy mi dice che era una paziente
appena arrivata, dopo aver tentato a lungo di partorire a casa. Non c’e’ tempo
per altre domande. La pressione della donna e’ buona e lei, a parte il forte
dolore dovuto a contrazioni continue, e’ in buone condizioni generali.
Lavoriamo alacremente, ed infine riusciamo a far uscire un maschietto abbastanza
piccolino, il quale, per ragioni sconosciute, non voleva saperne di venire al
mondo. A questo punto sento che il mio compito e’ finito e che mi posso
dedicare ad altri problemi: infatti il corridoio e’ pieno come se fosse lunedi’
mattina... siamo proprio diventati un pronto soccorso a tutti gli effetti.
Ad aspettare c’e’ una frattura esposta di una tibia, ed un morso di
serpente. Il tempo necessario per applicare una doccia gessata e per contrastare
con il siero specifico il veleno del mamba, non supera i 45 minuti.
Ritorno in sala parto e mi rendo conto con disappunto che la placenta non
e’ ancora uscita: cio’ costituisce e’ un grave problema perche’ questa
situazione porta con se’ il rischio di emorragia post partum. Bisogna agire in
fretta perche’ la mamma sembra un po’ anemica.
Le facciamo una breve anestesia generale e le pratichiamo la rimozione
manuale della placenta che si lascia estrarre senza particolari problemi, anche
se era ancora attaccata saldamente alla parete uterina. Ci sono tante
lacerazioni sul corpo della poveretta, ma pian piano le suturiamo tutte. La
donna ringrazia Dio per il dono della vita che le era stato concesso per la
seconda volta: “adesso sono proprio contenta perche’ a casa ho una bimba, ed
ora ho anche il maschietto”.
Anche se l’emoglobina e’ di 7 grammi, la degente ha perso molto, e decido
di trasfonderla.
Sono le ore 23 e ritengo di poter andare a letto. Lucy e Penina stanno
ripulendondo la donna, la quale sembra del tutto normale. Poi il disastro si
sviluppa in pochi minuti....
“Datemi dell’acqua, perche’ ho sete”, comincia a ripetere la mamma in tono
via via piu’ concitato. Poi comincia a sbuffare come se le mancasse il respiro,
ed un microsecondo piu’ tardi ha dei conati di vomito.
Dalla room 17 sento tutto e mi precipito: “come e’ la pressione?”
“Imprendibile, non sento niente...”
La donna diventa agitatissima ed inizia a dimenarsi strappandosi piu’ volte
la cannula della trasfusione.
Le mie ginocchia si mettono a tremare, e faccio fatica a rimanere lucido
per dare le indicazioni necessarie agli altri membri dell staff. Chiedo a Lucy di
provare a prendere un’altra vena. Io corro in sala operatoria cercando lo
spremisacca in modo da trasfondere piu’ velocemente. I vasi sanguigni sono
tutti collassati e non riesco neppure ad incannulare la femorale. Intanto le
labbra e le congiuntive diventano bianche come un pezzo di carta... tutto
succede cosi’ rapidamente, che sembra un sogno o una scena di un film. Il
bambino e’ ancora sul fasciatoio e piange; lui sta bene e non ha problemi...
Jesse, decide di venire ad aiutarmi: intuba la mamma, e la ventila con
ostinazione. Noi pratichiamo adrenalina e tutto quello che conosciamo per
rianimarla. Non riusciamo a capacitarci di quel che sta succedendo
ineluttabilmente. La malata non perde sangue, e l’eco addome, fatta con lo
strumento portatile, non dimostra presenza di emorragia in peritoneo. D’altra
parte, durante la rimozione manuale della placenta, avevo cercato di sentire
bene le pareti uterine con le dita, e non avevo percepito segni di rottura.
Ma la spirale di eventi continua e l’inevitabile e’ davanti a noi, anche se
Jesse continua a ripetere che dobbiamo continuare a cercare una vena, mentre
lui pompa con l’ambu. Io sono disperato e senza forze. Guardo le pupille con
una torcia e le trovo dilatate e fisse. Metto lo stetoscopio sul torace e non
sento attivita’ cardiaca:
“Jesse, e’ morta... non c’e’ niente da fare!”
“No, daktari, e’ ancora viva... per favore falle della adrenalina
intracardiaca e poi massaggia”... eseguo i suoi ordini con poca convinzione,
finche’ anche il nostro vecchio anestesista si arrende all’evidenza: e’ morta.
Siamo svuotati e ammutoliti!
Lucy si abbandona imbambolata su uno sgabello. Penina corre in bagno e
piange (era la prima volta per lei!). Jesse se ne va immediatamente a letto
quasi che non possa sopportare la scena. Io guardo il vuoto e sono pietrificato
dall’angoscia:
Quel che e’ successo rimane un mistero: la cervice era stata riparata.
L’utero non era rotto. Non c’era emorragia in corso. Con il senno di poi,
magari si trattava di una anemia cronica ben tollerata. Probabilmente quel 7 di
emoglobina non corrispondeva alla realta’ a motivo dell’emoconcentrazione che
segue una emorragia acuta.
E’ possibile che lei sia arrivata da noi con 5 grammi o meno, e che il
sanguinamento originato dalla placenta ritenuta abbia scompensato completamente
le sue condizioni emodinamiche.
Sono ancora in preda ad una grande confusione. Abbiamo un altro neonato
orfano. Dobbiamo nuovamente parlare con dei parenti che si aspettavano una
festa di vita ed invece riceveranno una notizia di morte.
Prego per quella donna e non riesco a togliermi dagli occhi l’ immagine del
suo corpo senza vita: mi tormenta soprattutto di notte quando non riesco a
dormire e mi chiedo se avrei dovuto fare qualcosa di diverso
Fr Beppe
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