lunedì 1 agosto 2011

L'AIDS in un'area rurale del Kenya centrale... una presentazione per i non addetti ai lavori



VIE DI TRASMISSIONE
Per quanto riguarda il Kenya si può dire che circa il 90% dei contagi avviene per via sessuale, e più precisamente eterosessuale; la trasmissione avviene attraverso  rapporti non protetti con partners occasionali, magari incontrati nel posto di lavoro che il più delle volte è lontano da casa.
Nella maggior parte dei casi il marito è costretto a lasciare la propria abitazione per andare a cercare lavoro e soltanto raramente ha la possibilità di  ritornare in famiglia.
Le difficoltà e l’incapacità di vivere una vita di astinenza lo porteranno a ricercare la compagnia di giovani donne del posto. Quando ritornerà a casa, sarà lui il veicolo attraverso il quale il virus potrà raggiungere la moglie e tramite lei probabilmente anche i figli durante future gravidanze.
Altre vie di trasmissione possono essere le punture accidentali per il personale addetto alla sanità o, soprattutto per il passato, l’uso di siringhe e taglienti non propriamente sterilizzati, o le trasfusioni di sangue non testate per il virus.
Due sono i principali ceppi di virus responsabili della malattia: HIV1 ed HIV2.
La differenza tra i due consiste soprattutto nella velocità con cui essi causano immunosoppressione e morte. Il virus HIV1 causa una progressione di malattia molto più rapida mentre l’HIV2 è responsabile di malattia meno aggressiva, che quindi dà al paziente molti più anni di sopravvivenza. Purtroppo l’Africa Orientale è per il 95% affetta da infezioni da HIV1.

LA TRASMISSIONE MATERNO-FETALE
Avviene principalmente durante il travaglio ed il parto, anche se non si può escludere una trasmissione durante tutto il corso della gravidanza.
Inoltre un’altra via attraverso la quale il neonato può essere infettato è l’allattamento materno; dal momento che il latte materno contiene alte quantità di virus. Sarebbe certamente auspicabile proporre una totale sospensione di tale pratica. Ma ci sono molti problemi anche da questo punto di vista; il primo è ancora di carattere economico: i vari tipi di  latte in polvere costano molto e non sono facilmente reperibili nei villaggi più rurali. Inoltre a ciò si aggiunge il problema dell’acqua, che spesso viene raccolta in ruscelli o pozze contaminate e non viene successivamente bollita, perché non c’è legna a sufficienza. Ciò può causare diarree così profuse da portare rapidamente il neonato alla disidratazione ed alla morte.
Un altro problema constatato da noi personalmente è che le mamme tendono a diluire il latte in quantità eccessive di acqua per risparmiare, causando malnutrizione e ritardo di crescita.
Per questo abbiamo aderito alle linee guida nazionali che consigliano di allattare il bambino esclusivamente per 6 mesi e di svezzare poi completamente, evitando l’alimentazione mista di latte materno e cibi più solidi.

PRESENTAZIONE CLINICA
Come ormai si sa quasi universalmente, possiamo dividere il decorso della malattia in vari stadi: quando si parla di contagio, ci si riferisce al momento in cui il virus entra nell’organismo.
Per quanto riguarda il Kenya, il contagio avviene normalmente per via eterosessuale, cioè attraverso un rapporto sessuale non protetto con un partner sieropositivo. Normalmente il contagio non si associa a nessun sintomo ed il paziente non avverte alcun problema. Da questo momento il soggetto diventa contagioso perché il virus comincia a replicarsi nel suo sangue ed a colonizzare vari tessuti dell’organismo. Egli però non sa di essere malato. Purtroppo, se egli si dovesse recare all’ospedale per qualunque ragione (per esempio per donare sangue ad un bambino anemico a causa della malaria), i test a nostra disposizione ci direbbero che egli è negativo, per un periodo di almeno 1 mese e mezzo. E’ questo il cosiddetto periodo finestra ( “window period”); la ragione di questo tempo così pericoloso sta nella natura dei test a nostra disposizione, che normalmente non possono testare la presenza del virus ma solo quella di anticorpi contro di esso.
Generalmente l’organismo necessita di un certo tempo per produrre una quantità di anticorpi determinabile con l’esame di laboratorio. Nel periodo in cui il virus è nel sangue, ma gli anticorpi non sono ancora formati, la persona è in “window period”, cioè egli è infatti contagioso, ma non possiamo determinarlo con i mezzi che abbiamo; si tratta di un tempo pericolosissimo che ci fa dire che almeno in questa parte del mondo non si può parlare di trasfusioni completamente sicure. L’OMS ( Organizzazione Mondiale della Sanità) ha recentemente distribuito nel Terzo Mondo dei test rapidi chiamati ELISA di terza generazione, che sembrano ridurre ulteriormente la durata della finestra. In Occidente esistono dei test in grado di trovare direttamente il virus (sono chiamati PCR, dalle iniziali inglesi): tali metodi eliminano di fatto il pericolo, ma non sono disponibili per noi.
Dopo un tempo di “finestra”, la persona che ha prodotto anticorpi diventa in effetti positiva (in termini medici si dice che sieroconverte da negativo a positivo): la sieroconversione di solito non si accompagna a sintomi ed il paziente non ne sarà al corrente. In una certa percentuale di casi (che per il Kenya non supera il 20%), esiste una malattia acuta ed autolimitante al momento della sieroconversione: il soggetto sviluppa febbre, dolore alle giunture, cefalea, rigonfiamento dei linfonodi al collo, ascelle ed inguine. Dopo alcuni giorni i sintomi spariscono, e normalmente la persona interpreta il malessere dei giorni precedenti come un attacco di malaria.
Il soggetto è dunque HIV positivo, ma continua ad essere forte ed in ottima salute come prima: come mai? Il virus va a replicarsi all’interno di un particolare tipo di globuli bianchi, chiamati linfociti CD4+: queste cellule sono deputate alla difesa dell’organismo da molti tipi di malattie infettive e di tumori. Per molti anni l’organismo è capace di compensare il numero di cellule perse a causa dell’infezione, con la formazione di nuove cellule all’interno del midollo osseo. Questa è la ragione per cui la persona continua ad essere capace di difendersi dalle malattie, e gode di buona salute ( si dice che è ancora immunocompetente).
Tale periodo di sieropositività senza malattia per il Kenya dura all’incirca 10 anni, in assenza di trapia; ma potrebbe aumentare all’infinito con un uso adeguato dei farmaci antiretrovirali: pure questo periodo è molto pericoloso perché il paziente, non sapendo di essere contagioso, continuerà con una consueta attività sessuale e normalmente non richiederà alcun test.
Nel soggetto non trattato con antiretrovirali, dopo circa 8 anni, il numero di linfociti prodotto dall’organismo comincia a diminuire, mentre la velocità di distruzione da parte del virus continua a crescere: sostanzialmente è come se ci fosse un esaurimento funzionale del midollo osseo. In questo momento le difese iniziano a diminuire progressivamente e la persona diventa immunodeficiente, cioè incapace di difendersi da molte patologie che gradualmente assaliranno l’organismo fino a portarlo alla morte. Quando le difese del paziente diventano molto compromesse, egli si ammalerà di infezioni così deboli che normalmente non riescono a contagiare persone immunocompetenti: tali malattie in grado di attaccare solo pazienti con fasi avanzate di HIV si chiamano opportunistiche, perché colgono l’opportunità della debolezza del sistema immunitario per causare malattia. Quando il soggetto HIV positivo sviluppa patologie sempre più gravi, perde peso corporeo e diventa emaciato e pian piano si avvia verso la morte, egli entra nello stadio di AIDS conclamato. Il tempo di sopravvivenza in questo stadio per noi non supera mai i due anni per le persone che non possono accedere ai farmaci antiretrovirali, mentre dobbiamo ammettere che è davvero molto più lungo per coloro che assumono queste medicine.
Nella nostra situazione in Kenya, possiamo dire che le infezioni che normalmente portano il paziente alla morte sono di natura infettiva; anche le neoplasie opportunistiche sono presenti, ma globalmente incidono di meno.
Il killer principale per noi è la tubercolosi, che si associa all’HIV in altissima percentuale: si dice che l’80% dei pazienti con AIDS in Kenya svilupperanno TBC nel corso della vita. La TBC in un paziente sieropositivo sarà molto più aggressiva e più difficile da curare perché spesso resistente ai farmaci e tendente a recidivare (cioè a ricomparire nuovamente dopo la terapia).
L’altro grosso nemico sono le diarree a volte irrefrenabili e continue per molti mesi: tale patologia porta rapidamente alla disidratazione in un contesto semiarido e molto caldo con ridotte possibilità di accesso all’acqua. Si parla a questo riguardo di “slim disease”, cioè di malattia che porta ad una magrezza estrema.
Le cause più frequenti di diarrea sono le comuni infestazioni intestinali, come l’ameba o la giardia; non mancano però situazioni più complesse come il tifo addominale o altre infezioni opportunistiche (per esempio la diarrea da criptosporidium parvum). Quasi sempre inoltre i pazienti in fase avanzata di AIDS sviluppano una infezione della bocca chiamata mughetto, che causa la formazione di placche biancastre sulla mucosa orale, esofagea e gastrica. Il mughetto provoca al paziente una sgradevole sensazione di bruciore in bocca, accompagnata da un sapore cattivo per tutti i cibi. Per tale motivo il soggetto non riesce ad alimentarsi, fatto che, aggiunto alla cronica diarrea, costituisce un giro vizioso che porta al rapido decadimento delle condizioni generali e alla morte.
Il tumore opportunistico più frequente nella nostra casistica è rappresentato dal sarcoma di Kaposi, che è una neoplasia maligna delle strutture vascolari la quale si presenta con placche e noduli cutanei e mucosi di color violaceo o marrone scuro. Tale tumore si espande lentamente e può interessare anche gli organi interni. La persona avverte dolore nelle aree interessate, e spesso non riesce a nutrirsi, soprattutto quando il sarcoma si espande alla bocca e all’apparato digerente. Purtroppo anche in questo caso la chemioterapia rimane appannaggio di pochissimi, per motivi esclusivamente economici. Si sa dalla letteratura medica che comunque il sarcoma di Kaposi migliora notevolmente, anche solo con l’impiego dei farmaci antiretrovirali.

DIAGNOSI
Il nostro apparato diagnostico è alquanto limitato. Non disponiamo dei grandi macchinari normalmente usati in Italia. L’OMS fornisce dei kits per una diagnosi rapida della malattia. Sono in genere molto semplici da usare e non richiedono personale particolarmente specializzato. Possono dare il risultato in circa 15-20 minuti, e sono assolutamente affidabili sui test negativi (in altre parole non danno mai dei falsi negativi). Per quanto riguarda i risultati positivi, questi vanno confermati con 3 metodiche diverse perché c’è una certa possibilità di risultati falsamente positivi in circa il 3% dei casi.
Eseguiamo la conta dei linfociti CD4 una volta al mese grazie ad una collaborazione con Sant’Egidio.
Il metodo empirico da noi usato per capire se il paziente è in stadio di AIDS avanzato è poi l’uso di particolari schemi forniti dall’OMS, attraverso i quali possiamo orientativamente classificare i pazienti in 4 classi, ognuna delle quali rappresenta uno stadio più avanzato della malattia. In pratica definiamo in AIDS conclamato tutte le persone che possono essere classificate in stadio 3 o 4.

Fr Beppe Gaido

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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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