lunedì 26 settembre 2011

La malaria cerebrale

Apro gli occhi quando sento una voce che mi chiama da un posto indeterminato che non riesco ad individuare.
Mi sento come in un pozzo profondo di cui non riesco ad intravvedere l’uscita.
La voce continua a chiamare, ed io mi sforzo di aguzzare gli occhi.
Poi finalmente intravvedo una faccia sconosciuta: e’ una ragazza vestita di bianco, ed ha la pelle nera come la mia; ma non mi pare di conoscerla!
La donna mi parla, e mi pare che la voce provenga da una bottiglia vuota di cui avverto tutti i rimbombi: “Era ora che ti svegliassi. Ci sono volute ben sei dosi di chinino in vena! Hai avuto un attacco di malaria cerebrale”.
Mi guardo in giro ma ho la testa vuota.
Vedo confusamente tanti malati nei letti vicini; e’ certamente un camerone molto grande, ma non so bene dove mi trovo.
Faccio un tentativo di mettermi seduto, ma mi rendo conto di non essere in grado di controllare le mie membra: sono totalmente senza forze!
La ragazza che mi ha svegliato mi ha detto che ero stato portato a Chaaria (dunque mi trovavo a Chaaria, a quaranta chilometri da Mukothima!); ero stato trasportato con un matatu da mia moglie, che mi aveva trovato a terra incosciente quando era tornata dal lavoro dei campi.
Non ho alcun ricordo di quando io possa aver perso coscienza, ne’ rammento alcunche’ del viaggio in ospedale.
Quello che so e’ che normalmente la malaria in me comincia con uno strano senso di inquietudine e di spavento di per se’ immotivati. In kiswahili diciamo che proviamo KUSHTUKA, cioe’ attacchi di panico.
Io credo negli spiriti; e mi pare che, quando la malaria si impossessa di me, e’ come uno spirito maligno: sento che mi sta succedendo qualcosa, qualcosa di assolutamente brutto, e ne ho paura!
Poi la testa mi diventa pesante: mi sento smarrito, stordito, agitato... uno strano dolore mi prende nel fondo della schiena, appena sopra l’osso sacro... e poi comincio a tremare come una foglia, alternando momenti di caldo insopportabile, ad altri di freddo atroce. In quei momenti cerco le coperte... non mi bastano mai; ma poi, dopo alcuni minuti, non le sopporto piu’, perche’ sudo come un elefante ed ho un caldo tremendo... e subito dopo il ciclo ricomincia.
Le scosse ed i tremiti a volte sono tremendi, ed impercettibilmente diventano convulsioni... e poi mi abbandono al coma profondo, da cui so che mi svegliero’ solo se Dio vuole.
L’infermiera mi ha detto che ho avuto diarrea e vomito veramente importanti, ma io non ne ho avuto coscienza.
Quello che vedo e’ che ho il catetere, e che le mie urine sono marrone scuro come la coca cola.
Sono felice di essere rinvenuto: so quanta gente del mio villaggio e’ stata stroncata dalla malaria; attendo l’orario di visita per poter vedere mia moglie. Mi han detto che e’ venuta per due giorni consecutivamente, camminando a piedi da Mukothima; ma io non me ne sono accorto.
Certo che ora mi sento veramente uno straccio.
Sono assolutamente senza forze, e giaccio in un bagno di sudore che sembra non arrestarsi mai.
La bocca mi fa un male tremendo, perche’ mi sono riempito di ulcere; ed anche se sono cosciente dell’importanza di mangiare qualcosa, proprio non ci riesco.
Ho dolore dappertutto (mi sento un novantenne, pur avendo in effetti solo 28 anni); ho una nausea che mi tormenta, ed un capogiro che mi ipedisce di spostarmi nel letto: non e’ solo una sensazione di stordimento; vedo proprio la stanza ed i mobili girare!
Lo so che dovranno passare ancora dei giorni prima che io possa rimettermi in piedi!
Tra l’altro l’infermiera mi ha detto che ho 4 grammi di emoglobina, ma che stanno gia’ facendo le prove crociate, e che saro’ trasfuso oggi stesso: e’ stata la mia dolce mogliettina a donare il sangue per me... Non vedo l’ora di vederla e di dirle grazie.

Fr Beppe Gaido (a nome di Joseph Mwenda, un paziente del Cottolengo Mission Hospital)





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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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