martedì 1 novembre 2011

Il rullo compressore

A volte avrei proprio voglia di poter staccare anche mentalmente. La vera difficolta’ di Chaaria e’ che sono di guardia sempre, pure quando entro in camera mia e penso di andare a letto. 
Sono tredici anni che non ho la certezza di avere una notte completa di riposo, ed anche quando non mi chiamano, mi rimane il peso sul cuore dei problemi che non sono riuscito a risolvere, dei casi difficili, e dei pazienti in bilico tra la vita e la morte. 
Quello che mi manca di piu’ e’ avere un primario sopra di me, a cui poter riferire i malati troppo difficili con i quali non so che pesci pigliare, o a cui chiedere un consiglio. Spesso il peso che ho sul cuore e’ molto piu’ pesante di quello che ho sulle braccia o sulla schiena.
Non avere nessuno a cui domandare un parere alle 2 di notte quando sono davanti ad una giovane donna con una emorragia interna, avere sempre il dovere di prendere la decisione definitiva, spesso sta diventando un fardello veramente difficile da portare. 
Ieri per esempio mi trovo davanti una ragazzina di 15 anni: ha una improbabile diagnosi di epatite con ascite. Infatti gli enzimi epatici sono normali, e, all’ecografia, si vede una enorme massa liquida con parete propria. 
Chiamo Peter e insieme ci rendiamo conto che si deve trattare di una enorme cisti ovarica sulla cui benignita’non possiamo giurare. Lui vorrebbe operare, ed io resto perplesso, soprattutto pensando alle difficolta’ anestesiologiche: Jesse infatti e’ totalmente contrario e sostiene che non possiamo intervenire per una massa che arriva fino al diaframma. 
La mamma della bambina pero’ non ne vuole sapere: “Abbiamo viaggiato tantissimo. Veniamo da molto lontano, ed il nostro peregrinare termina qui. Non ho intenzione di andare in nessun altro ospedale”. 
Ancora una volta mi trovo solo a dirimere la questione: rischiamo o ci proteggiamo da possibili complicazioni durante l’operazione, e insistiamo con quella donna dicendole che qui non possiamo far nulla? Lei intanto mi sta alle calcagna e mi continua a ripetere che li devo aiutare “per amor del cielo”, perche’ loro hanno gia’ speso tantissimo sia con medici convenzionali, sia con erboristi e guaritori di vario genere. Infine qualcuno che decide ci deve pur essere: “andiamo in sala oggi stesso – dico a tutti - e se poi si trattasse di qualcosa che non riusciamo a rimuovere, inventeremo qualcosa strada facendo”. Jesse mi risponde poco convinto con un: “as you wish”. 
Peter e’ ugualmente titubante e mi lancia un “esperamos” in Spagnolo, che lui conosce molto meglio dell’Italiano. Stavolta pero’ la Provvidenza ci assiste veramente. Si tratta si’ di una massa enorme, ma ha pochissime aderenze che liberiamo e tagliamo molto rapidamente. 
In meno di mezz’ora riusciamo a tirare fuori una montagna mostruosa di carne dal peso di circa 6 kg. 
Non ci sono complicazioni: rimuoviamo il tessuto patologico, richiudiamo e siamo entusiasti quando facciamo vedere alla mamma della paziente il nostro cimelio che ora manderemo per l’esame istologico. 
Che bello quando le cose vanno lisce, ma che responsabilita’ decidere “sulla pelle” di una ragazza cosi’ giovane. Anche ora mi ritrovo nella stessa situazione. E’ molto presto, e davanti a me ho una giovane di 20 anni in condizioni cliniche molto gravi. Ieri le avevamo indotto un parto pilotato per una morte intrauterina causata dalla malaria in gravidanza.
Aveva avuto ottime contrazioni, ma poi al momento del parto podalico aveva iniziato a sviluppare una strana distensione addominale, con forti dolori di tipo crampiforme. Al momento di trasportarla dalla sala parto al suo letto, la donna era stramazzata a terra senza polso ne’ pressione. Gran parte della notte e’ poi trascorsa in modo ansiogeno e convulso, mentre tentavamo di trasfonderla, di ridarle delle condizioni emodinamiche accettabili, di correggere l’ipoglicemia e lo shock. 
Ora e’ mattina, e l’ecografia e’ spietata: rottura d’utero. Ho un attimo di sconforto pensando che oggi e’ sabato e non potro’ contare su Jesse che e’ partito per un viaggio. 
E’ vero che ci sono Peter e Ruth; ho chiamato Ogembo che ha subito abbandonato la sua funzione nella Chiesa Avventista a cui appartiene; ma il fatto di essere io l’unico anestesista sul campo con una donna cosi’ grave mi da’ un forte senso di ansia ed inadeguatezza. Sono troppo teso. 
Non potro’ entrare in sala in queste condizioni. Vado un attimo nel bananeto e mi siedo sull’erba guardando tra le fronde. Sento la brezza mattutina sulle mie guance, vedo il blu cupo del cielo sopra di me, e cerco di non pensare a nulla. A volte questo training autogeno mi aiuta a ritrovare la padronanza dei miei nervi, e mi porta a pregare un po’ in silenzio.
Rimango un questa posizione per alcuni minuti che a me sembrano un’eternita’. Poi vengo come svegliato dal mio stato di apatia quando Kanana mi chiama da lontano: “il sangue e’ pronto, la donna e’ in sala ed i medici si stanno lavando”. Tento l’anestesia spinale con la paziente sdraiata sul fianco; e’ in stato di semi-incoscienza ed e’ molto agitata.
Naturalmente in queste condizioni non ci riesco e mi devo arrendere al fatto che dovro’ far dormire la malata. La cosa mi turba molto, ma non ci sono alternative: non e’ certo trasportabile fino a Meru. 
Il cuore mi batte forte in gola, ma iniziamo a lavorare. Siamo tutti tesi perche’ la donna e’ molto grave. Con l’aspiratore raccogliamo circa un litro e mezzo di sangue dall’addome: bisogna trasfondere subito. Prendiamo due sacche e le infondiamo a “go go”. 
Pian piano pero’, nonostante momenti di sconforto, sia da parte di Peter, quando non riesce a chiudere un’ arteria, sia da parte mia, quando per esempio non sento piu’ il polso e devo usare il repiratore per far muovere i polmoni della malata, l’operazione continua inarrestabile ed ora volge verso un lieto fine. 
Usciamo dalla sala dopo circa 3 ore: siamo sudati e stanchi, ma anche oggi veramente eccitati e felici. Abbiamo salvato un’altra vita. Ma che fatica prendere tali decisioni! 
Certo che sarebbe bello poter pensare che ora siamo liberi, ma a Chaaria non e’ possibile: sono ancora di guardia, e mentre vado a mangiare qualcosa, ripeto a Peter: “spero di non chiamarti nuovamente fra due o tre ore per un’altra emergenza”. 

Fr Beppe Gaido 


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Chaaria è un sogno da realizzare giorno per giorno.

Un luogo in cui vorrei che tutti i poveri e gli ammalati venissero accolti e curati.

Vorrei poter fare di più per questa gente, che non ha nulla e soffre per malattie facilmente curabili, se solo ci fossero i mezzi.

Vorrei smetterla di dire “vai altrove, perché non possiamo curarti”.

Anche perché andare altrove, qui, vuol dire aggiungere altra fatica, altro sudore, altro dolore, per uomini, donne e bambini che hanno già camminato per giorni interi.

E poi, andare dove?

Gli ospedali pubblici hanno poche medicine, quelli privati sono troppo costosi.

Ecco perché penso, ostinatamente, che il nostro ospedale sia un segno di speranza per questa gente. Non ci sarà tutto, ma facciamo il possibile. Anzi, l’impossibile.

Quello che mi muove, che ci muove, è la carità verso l’altro, verso tutti. Nessuno escluso.

Gesù ci ha detto di essere presenti nel più piccolo e nel più diseredato.

Questo è quello che facciamo, ogni giorno.


Fratel Beppe Gaido


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